La risposta del Partito democratico alla manifestazione per la difesa della Costituzione «La via maestra» di sabato scorso? Arriva con le parole di Anna Finocchiaro, presidente della commissione affari costituzionali e relatrice della legge che deroga all’articolo 138. Tocca a lei presentare a un’aula del senato semivuota il disegno di legge del governo, arrivato al penultimo passaggio: il voto di questa mattina sull’identico testo di tre mesi fa, così come prevedono le procedure ordinarie di revisione costituzionali, che d’ora in poi saranno messe da parte. Poi, a dicembre, sarà alla camera l’ultimo passaggio. Finocchiaro non perde tempo, malgrado il momento potrebbe essere solenne – si sta per dare il via a una riscrittura generale della Carta del ’48 -, e interviene per un minuto soltanto: «Mi sento solo in dovere – dice – di raccomandare all’aula l’approvazione, e ovviamente esprimo il mio augurio che questa votazione avvenga con la maggioranza dei due terzi». Che è precisamente il contrario di quanto chiesto dai promotori della manifestazione – Rodotà, Carlassare, Ciotti, Landini e Zagrebelsky – anche con un appello in extremis ai parlamentari: «Sarebbe sufficiente che un limitato numero di senatori non partecipasse alla votazione finale, consentendo così a tutti i cittadini di esprimersi con un referendum».

È molto difficile che ciò avvenga. Le defezioni ovviamente vanno contate nei gruppi parlamentari favorevoli al percorso riformatore voluto dal governo. Nel Pd i ranghi sono parecchio serrati; in prima lettura a luglio solo due senatori, Silvana Amati e Walter Tocci, si differenziarono, astenendosi. Una scelta che si può prevedere confermeranno, forse in compagnia di qualche altro senatore e senatrice, ma in totale i dissensi si conteranno sulle dita di una mano. Anche Laura Puppato, che pure ha partecipato alla manifestazione «La via Maestra», ha deciso di confermare il suo foto favorevole al disegno di legge costituzionale. Qualcosa di più si può sperare nel fronte opposto, quello del Pdl, dove l’opposizione alle riforme porta il segno contrario dell’iper-presidenzialismo. Anche lì i dissidenti ufficiali in prima lettura erano stati due soltanto, Augusto Minzolini e Antonio Milo, ma molti di più non avevano partecipato al voto – un quarto del gruppo – e così i due terzi a luglio non erano stati raggiunti. Ma quello che conta è la votazione di oggi. Minzolini è orientato a confermare la sua scelta, l’ex direttore del Tg1 è il termometro dei «falchi» berlusconiani. Che avrebbero voluto una sterzata netta in favore del presidenzialismo e non si dispiacerebbero certo se il governo Letta-Alfano subisse un colpo, come sarebbe dover attendere l’esito di un referendum per far partire le riforme costituzionali. Se c’è un avversario giurato dei berlusconiani «lealisti», poi, è proprio il ministro delle riforme Quagliariello, che ieri ha presentato alle aule del parlamento la relazione dei 42 saggi nominati dal governo. Con una novità.

La riforma della giustizia, che a luglio era rimasta fuori dal novero di quelle previste dal governo dopo una sollevazione del Pd contro i tentativi del Pdl, è rientrata prepotentemente in agenda. Quagliariello ha annunciato all’aula distratta che il governo farà direttamente le sue proposte di legge, per tradurre in concreto i suggerimenti dei saggi di Napolitano. Se ne ricordano principalmente due: stretta all’uso e alla diffusione delle intercettazioni e sottrazione al Csm del giudizio disciplinare sui magistrati. Ipotesi «inaccettabili», avevano strillato i democratici prima dell’estate, «la giustizia deve restare estranea all’ammodernamento dell’assetto istituzionale». Altroché, dice adesso Quagliariello, «è un tema centrale e il necessario completamento» dell’opera. E il Pd sta zitto, non dissente, quasi non nota.

Lo scambio è fin troppo scoperto. Ai democratici importa soprattutto assicurarsi il voto di tutti i senatori berlusconiani, anche degli ultras, per evitare l’ostacolo del quorum. Qualche concessione sulla giustizia è indispensabile, altrimenti il percorso delle riforme non partirebbe. Anche il presidente della Repubblica ha dato il suo contributo, caricando di attese il voto di oggi. Proprio ieri ha ricordato che «occorre andare avanti con le riforme» e che «alle riforme ho legato il mio impegno». Non troppo velata allusione all’eventualità di dimissioni, nel caso in cui il percorso riformatore si arenasse anche stavolta. Basteranno tutte queste attenzioni questa mattina, per far guadagnare al disegno di legge costituzionale 813-b il voto dei fatidici 214 senatori, necessari per evitare il referendum? Occhi puntati sul Pdl dove, a giudicare dal modo in cui il presidente della prima commissione della camera Sisto ieri ha attaccato Quagliariello e le «insufficienze» sulla giustizia, l’ascia di guerra non è stata seppellita.