Il ministro Bonafede ha convocato i quattro partiti della maggioranza in via Arenula, la riunione avrebbe dovuto tenersi stasera ma l’appuntamento è saltato per la concomitanza con il voto di fiducia. Ma già domani potrebbe essere il giorno buono: la maggioranza riprende a parlare di giustizia dopo oltre tre mesi. E dopo il discorso in senato del guardasigilli che, difendendosi dalle mozioni di sfiducia, ha promesso maggiore collegialità ai partner giallo-rossi e ha accennato alla riforma del Csm. Riforma che adesso «non può più attendere», secondo un post domenicale del ministro a commento del «vero e proprio terremoto che sta investendo la magistratura italiana». Una fretta che costringe persino il Pd, che pure aveva posto per primo il tema, a raccomandare prudenza di fronte alla tentazione del «tutti a casa». Il Csm in carica è appena a metà mandato, è stato recentemente rinnovato per un terzo della componente togata elettiva (proprio a seguito delle dimissioni per lo «scandalo Palamara») e il presidente Mattarella che lo guida e che potrebbe scioglierlo solo in caso di impossibilità di funzionamento ha già valutato, l’anno scorso, di dare a governo e parlamento il tempo per riformare l’organo di autogoverno dei giudici. Oltretutto «sciogliere adesso vorrebbe dire interrompere i procedimenti disciplinari già avviati a carico dei magistrati», fa notare il responsabile giustizia del Pd Walter Verini.

QUANDO il discorso sulla giustizia era stato interrotto, a febbraio, l’urgenza non era quella di intervenire sul Csm, che infatti era stato stralciato dal disegno di legge delega che attente alla camera. L’urgenza era quella del processo penale da sveltire, per limitare così i danni dello stop alla prescrizione sul quale Bonafede non è tornato indietro. «Processo penale e prescrizione sono urgenti quanto la riforma del Csm» sostiene il deputato di Leu Federico Conte, e anche «un necessario intervento sull’ordinamento penitenziario per potenziare le misure alternative al carcere».

Sul Csm erano due i punti fermi raggiunti dalla maggioranza: aumento del numero dei componenti (da 27 a 33) e aumento dei collegi elettorali per la componente togata in modo da diminuirne l’ampiezza, con l’intenzione di contenere il peso delle correnti della magistratura associata. Si tratterebbe di un ritorno all’antico: diciotto anni fa, infatti, il centrodestra (governo Berlusconi, Castelli ministro) aveva fatto precisamente l’opposto: ridotto i componenti del Consiglio da 33 a 27 e allargato i collegi che da quattro erano passati a tre nazionali. Direzione contraria, ma curiosamente lo stesso identico obiettivo: combattere le correnti. Allora non funzionò. Alle elezioni immediatamente successive a quella riforma del 2002 si candidarono solo cinque magistrati fuori dai gruppi organizzati e nessuno di loro venne eletto. Facendo un salto in avanti, per il Csm attualmente in carica gli accordi tra le correnti sono arrivati addirittura prima delle elezioni, tant’è che il numero dei candidati nel 2018 è stato pressoché identico al numero dei posti da assegnare: 21 candidati per 16 seggi. I pm sono stati eletti tutti, gli unici a restare fuori sono stati due magistrati di Cassazione e tre giudici di merito. Che però, a seguito dello scandalo Palamara e delle successive dimissioni dei consiglieri eletti, sono stati tutti e tre recuperati (uno ha rinunciato).

NEL NUOVO sistema elettorale immaginato da Bonafede – dopo aver rinunciato all’idea originaria, il sorteggio – i collegi elettorali diventerebbero 19. Si parla però di tre preferenze a disposizione di ciascun elettore, cosa che al contrario può favorire gli accordi tra cordate. E si parla di ballottaggio, mentre le proposte di legge già agli atti della camera prevedono il turno unico. «Con il Csm andrà riformato il sistema delle carriere dei magistrati – anticipa il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis, Pd – non per negare il pluralismo culturale e associativo dei magistrati, ma per contrastarne le degenerazioni correntizie». Non c’è solo la legge elettorale.