Rimesso in sella a tempo di record dal Csm, che lo ha nominato per la seconda volta in diciotto mesi al vertice della magistratura italiana dopo che il Consiglio di Stato ne aveva clamorosamente annullato la nomina la settimana scorsa, il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio ieri mattina era al suo posto in toga rossa ed ermellino nell’aula magna del Palazzaccio per la relazione di apertura dell’anno giudiziario. Davanti a lui e al centro delle poche autorità ammesse a una cerimonia ridotta per la pandemia, Sergio Mattarella alla sua ultima uscita pubblica prima che lunedì alla camera comincino le votazioni per il suo successore.
L’inizio di 2022 è un momento di passaggio non solo per alcuni dei protagonisti delle istituzioni, lo è anche per il sistema delle leggi. Le riforme dei codici di procedura della ministra Marta Cartabia – anche lei non si può escludere sia di passaggio, da via Arenula a palazzo Chigi, nel caso di elezione di Draghi al Quirinale – hanno fissato obiettivi ambiziosi in termini di riduzione dei tempi dei processi, meno 40% nel civile e meno 25% nel penale entro il giugno 2026. Ma vanno ancora tradotte in concreto nei decreti legislativi (il governo ha tempo tutto l’anno). Intanto dalla sintesi della relazione letta da Curzio e ancor più dalle trecento pagine del testo scritto si ricava un’indicazione preoccupante. I tempi della giustizia stanno nel frattempo crescendo.

Le statistiche non sono aggiornatissime, colpa evidentemente di quella scarsa «cultura del dato» che Cartabia ha indicato come un altro dei problemi da affrontare. Nel 2020 rispetto al 2019 (che è l’anno di riferimento per gli obiettivi promessi nel Pnrr, visto che è l’ultimo pre pandemia) i tempi dei processi civili di primo grado sono aumentati del 29% e di appello del 27%. Ancora peggio nel penale: tempi su del 31% in primo grado e del 42% in appello. In media il processo civile dura 449 giorni in primo grado e 799 in appello. Quello penale 516 giorni in primo grado, 1.035 in secondo (quindi quasi tre anni, rispetto ai due indicati dalla legge come limite ragionevole) e 237 in Cassazione.

Tutto questo a fronte di un calo inarrestabile dei reati (nel 2021 c’è stato in realtà un piccolo aumento rispetto al 2020, ma quell’anno di piena pandemia fa poco testo e rispetto al 2019 la diminuzione dei reati è stata del 12,6%). Non tutti i reati diminuiscono proporzionalmente. Aumentano, ed è comprensibile in pandemia, i crimini informatici, le violenze e le minacce, significativamente quelle contro giornalisti e amministratori pubblici. Aumentano ancora gli infortuni sul lavoro, specie mortali. Invece gli omicidi volontari diminuiscono ancora e sono a un livello tra i più bassi in Europa: 295 in un anno ed è notevole che ormai di sette su dieci si accerti l’autore. Ma quando la vittima dell’omicidio è una donna, come nel 2021 è accaduto 118 volte, nell’86% dei casi l’assassino è un familiare e nel 69% dei casi è il partner o ex partner.

Dalla relazione del primo presidente si conferma anno dopo anno il peso del l’arretrato sulla lentezza dei processi. In Italia ci sono oggi quasi sei milioni di cause pendenti, 3.106.623 civili e 2.540.674 penali. Questo malgrado una lieve inversione di tendenza. Sia nel civile, grazie a una maggiore velocità di definizione dei procedimenti, sia nel penale, a causa di minori iscrizioni. Tutto questo ha effetti sulla prescrizione, problema attorno al quale hanno litigato tre maggioranze diverse in questa legislatura e che è stato poi (si vedrà se) risolto da Cartabia con l’introduzione del criticatissimo istituto della improcedibilità. Criticato sottotraccia (più nella relazione scritta che in quella letta) da Curzio, pienamente approvato invece dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che dopo la riforma dell’anno giudiziario interviene a conclusione della cerimonia. Quanto alle prescrizioni dichiarate nel 2020, il 37,1% sono intervenute nella fase delle indagini preliminari, il 35,8% durante il primo grado, il 25,1% in appello e appena lo 0,5% in Cassazione. Eppure con la riforma Cartabia (lei chiede di non chiamarla così, forse perché non pienamente soddisfatta dell’innesto sul vecchio testo Bonafede) nulla cambierà fino al grado di appello, lasciando dunque irrisolto il cuore del problema. Dopo la sentenza di primo grado la prescrizione adesso si blocca, salvo l’improcedibilità che interviene a cancellare i processi che durano troppo. Qui cade la critica di Curzio, in linea con le proteste dell’Associazione magistrati e le osservazioni del Csm: «È da chiedersi se una scelta così radicale fosse l’unica strada percorribile o non fosse possibile rendere più duttile la risposta, prevedendo risposte differenziate una congrua riduzione di pena per il condannato, un giusto indennizzo e la rifusione delle spese legali».

Secondo il primo presidente la riforma della procedura penale potrà avere successo solo se si ridurrà assai il numero dei processi e «il dibattimento si svolga solo se gli elementi acquisiti nelle indagini consentano una ragionevole previsione di condanna». Perché accada «sarà necessario riequilibrare il rapporto tra il numero dei pm e giudici». Prima ancora andrebbe aumentato il numero di magistrati, Curzio propone un paragone imbarazzante con la Germania: «In Italia ogni 100mila abitanti vi sono 11.6 giudici, 37.1 amministrativi, 388.3 avvocati. In Germania 24.5 giudici, 65.1 amministrativi, 198.5 avvocati». Ma quando si fanno i concorsi di magistratura, pochi candidati vanno avanti «facendo sorgere il ragionevole dubbio che molti corsi universitari non riescano a fornire le basi». Infine torna la critica per la riforma del 2017 che ha tolto la possibilità di fare appello ai richiedenti asilo che si vedono respinta la prima richiesta. Una soluzione firmata Pd per scoraggiare le richieste di asilo – decreto Minniti-Orlando – che ha finito per caricare direttamente sulla Cassazione oltre 10mila ricorsi l’anno. Risolti, tagliando corto, con una dichiarazione di ammissibilità in oltre il 50% dei casi.