La guardasigilli Marta Cartabia non ha alcuna intenzione di rimettere mano a una riforma della quale non è in realtà soddisfatta. La considera già sin troppo snaturata dalla mediazione con i 5S, che la ha costretta ad annacquare le proposte della commissione Lattanzi su riti e pene alternative, cioè tutta la parte che mirava alla deflazione dei processi. Forse alla fine qualche piccola modifica in nome della ragion politica la accetterà ma l’offensiva mirante a smantellare l’impianto della riforma sbatterà sulla sua opposizione.

LA MINISTRA LO AVEVA detto subito dopo l’incontro fra Conte e Draghi, chiarendo appunto che la riforma è già molto diversa da come la avrebbe voluta. Ieri, mentre i 5S galvanizzati dal procuratore Gratteri, quello dei 155 arresti e 8 condanne a Platì, dei 334 arresti e 7 condanne nell’inchiesta Nema, presentavano 916 emendamenti sulla riforma e altri 917 solo sulla prescrizione, la ministra della Giustizia ha rincarato la dose: «Le forze politiche spingono in direzioni diametralmente opposte ma questa riforma deve essere fatta perché lo status quo non può rimanere tale. So che i termini indicati sono esigenti ma sono quelli che il nostro ordinamento e l’Europa definiscono come termini della ragionevole durata del processo».

La ministra è consapevole di trovarsi di fronte a un attacco il cui obiettivo, nonostante le parole alate di Conte all’uscita del colloquio con Draghi, non è apportare lievi modifiche tecniche ma ripristinare, soprattutto sulla prescrizione, la riforma Bonafede. Del resto c’è un Conte per tutte le stagioni. Parlando con i collaboratori più stretti, prima di rivolgersi ieri sera agli eletti a cinque stelle, ha usato toni sideralmente distanti da quelli squadernati all’uscita di palazzo Chigi. «Non ci si può accontentare di ritocchi», ha detto in sintesi. Bisogna mirare al bersaglio indicato dai procuratori: eliminare l’improcedibilità. Cioè abbattere di nuovo la prescrizione e tornare alla Bonafede.

IN UN CERTO SENSO, l’ex premier è tra due fuochi. Non vuole rompere e arrivare a uno scontro frontale con Draghi per il quale non è pronto e forse non lo sarà mai. Ma è pressato da un intero mondo, non limitato alla base grillina, che preme per la dichiarazione di guerra. I magistrati alla Gratteri che ieri hanno regalato alla truppa pentastellata la parola d’ordine: «Così converrà delinquere». L’esterno/interno Di Battista, che martella: «Sono tornate le porcate immonde come la riforma Cartabia. Complimentoni ai ministri 5S che l’hanno votata». Il Fatto, che scrive addirittura di una contrarietà del Quirinale alla riforma mentre il Colle ritiene che il testo Cartabia non presenti alcuna criticità.

IN QUESTO CLIMA, che non autorizza certo a scommettere su alcun accordo, arrivano in due diverse ondate gli emendamenti alla riforma in commissione. Quelli sui quali si dovrà cercare un punto d’incontro, per evitare lo scontro frontale nella maggioranza, sono firmati dai 5S. Indicano tre vie d’uscita possibili. La prima è il ritorno rimaneggiato della Orlando, con la prescrizione sospesa per due anni dopo il primo grado e per un anno dopo l’appello, però a decorrere dal primo gennaio 2024 e non 2020: qualche cambiamento si inizierebbe a vedere tra un decennio o giù di lì. La seconda è il lodo Conte, con allusione al deputato di LeU Federico: prescrizione eliminata ai sensi della Bonafede ma solo per i condannati in primo grado, non per gli assolti. La terza via, l’unica che mantenga l’eventuale «improcedibilità» di un processo presente nella Cartabia, si limita a far slittare i tempi del conto alla rovescia. Partirebbe con la prima udienza dei processi d’appello o di Cassazione e non dalla data d’impugnazione. In realtà la carta di riserva che i 5S tengono ancora coperta sarebbe un drastico innalzamento dei termini prima dell’improcedibilità, nel complesso di 5 anni.

POI C’È IL PD con la sua formula meno drastica: possibilità per il giudice di prorogare di un anno i termini prima che scatti l’improcedibilità per tutte le fattispecie di reato. E c’è LeU, con Federico Conte, che punta sulla possibilità di raddoppiare i tempi dell’appello, da 2 a 4 anni, ma solo per le condanne in primo grado. È uno scontro tecnico, ed è soprattutto uno scontro politico, con la Lega che fa muro, Fi e Iv che tirano a modificare la legge ma in direzione opposta. Sta a Draghi sbrogliare la matassa. Ma è difficile che, senza il ritiro della valanga di emendamenti 5S, dunque in un clima già di guerra, il governo accetti di tentare una nuova mediazione.