Abbiamo fiducia nel futuro, ma solo Allah può sapere cosa ci riserva. A volte i media tendono a enfatizzare i pericoli del dopo 2014, sostenendo che una volta avvenuto il ritiro ci saranno molti cambiamenti negativi. Io non credo. Ma di certo non credo neanche in miglioramenti repentini», dice da Jalalabad un content manager dell’emittente Radio Killid.

La testimonianza è una delle oltre centoventi raccolte, in un anno di viaggi in Afghanistan, dal ricercatore e giornalista Giuliano Battiston per capire come gli afgani vedano il prossimo futuro. I risultati sono raccolti in Aspettando il 2014. La società civile afgana su pace, giustizia e riconciliazione, ricerca condotta in sette province, parte di un più ampio progetto di cooperazione internazionale, promosso dalla rete Afgana e gestito da Arcs, con fondi della Direzione generale cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri.

Il 2014 è indicato come un anno cruciale. Ad aprile si terranno le elezioni presidenziali, nella speranza che si svolgano al meglio e che diano vita a un governo riconosciuto quanto meno come legittimo. A fine anno si concluderà la missione Nato-Isaf che lascerà il posto a una nuova missione dai contorni tutti da chiarire, in termini di risorse, personale e obiettivi. I temi trattati dalla ricerca sono quattro: ragioni del conflitto, negoziati di pace, rapporto tra pace e giustizia, aspettative e timori per il dopo 2014. La scelta degli interlocutori, precisa lo stesso autore, dà già una visione in qualche modo parziale.

Le interviste sono state svolte tutte in ambito urbano. Le difficoltà a condurre l’indagine nelle aree rurali è una prima indicazione della situazione. I timori sono cinque: lo scoppio di un nuovo conflitto interno come quello che dilaniò il paese dopo il ritiro sovietico; il rischio che con il ritiro delle truppe occidentali subentri l’influenza di altri Paesi; che le forze di sicurezza afgane non siano in grado di tenere il controllo; che la fine della presenza militare occidentale con la conseguente riduzione degli aiuti possa provocare una crisi economica; che la possibile presenza di basi militari Usa sul territorio afgano possa esporre a ulteriori rischi o di contro portare stabilità, ma con una riduzione di sovranità.

Il conflitto è visto come il risultato di fattori esterni e interni che «interagiscono fra di loro, si alimentano a vicenda». Tra i primi c’è la percezione di essere nuovamente al centro del Grande Gioco. I paesi contro cui si punta il dito sono l’Iran e, soprattutto, il Pakistan, ma gli stessi occidentali non sono risparmiati dal sospetto di portare avanti i propri interessi. Tra le cause interne pesa l’immagine di un governo centrale «percepito come illegittimo, impermeabile alle richieste dei cittadini, incapace di provvedere ai loro bisogni essenziali, corrotto».

Complesso è il quadro del negoziato di pace. In linea di massima gli interlocutori sono a favore, ma contestano il modo in cui è stato impostato. Sia il governo sia i talebani sono considerati privi di legittimità e legati a interessi stranieri: statunitensi, quando si parla di Kabul, o di settori dell’intelligence di Islamabad nel caso dei turbanti neri. La questione della pace è legata a quella della giustizia. «L’ingiustizia è uno degli elementi che alimenta il conflitto», si legge. Ogni eventuale accordo infine deve considerare un approccio duplice e contenere un pace politica e una pace sociale. La prima dall’alto verso il basso, la seconda con un percorso inverso che tenga conto della partecipazione delle comunità locali al momento assente.

Lettera 22