Da tempo immemorabile, la cultura dei sapiens si interroga su ciò che verrà: immaginare il futuro, programmarlo, agire per costruirlo sembra un tratto specie-specifico. L’arte divinatoria è un aspetto di questa cultura: il tempo che verrà – nell’immaginario di chi lo scruta, affidandosi all’oracolo – assume le vesti del fato, del futuro già scritto, del destino che non è evitabile.

Da quando hanno cominciato a elaborare la loro coscienza, i sapiens condividono però un’intuizione altrettanto robusta: quella di poter scegliere; anzi, di farlo in continuazione, in piena autonomia, quando si trovano di fronte ad alternative possibili. L’intuizione di esercitare una volontà, di poter scegliere, di essere in ultima analisi responsabili delle proprie scelte e di essere liberi di farlo (quando non si è costretti, da imposizioni o condizionamenti, a fare altrimenti) è forte almeno quanto quella di essere una persona, un individuo, un agente dotato di coscienza.

Che si possa dare un destino e che – allo stesso tempo – ogni persona sia libera e responsabile è cosa che, ovviamente, disturba la logica: sentirsi liberi, credendo allo stesso tempo al destino, è palesemente un ossimoro.

Nella cultura umana, l’idea che il futuro sia già scritto ha assunto per diversi millenni le vesti di un problema teologico, legato all’onniscienza di Dio. Anche con l’avvento dell’età moderna, il tema della predestinazione e della responsabilità personale – sul quale si erano cimentati Aristotele, Pelagio, Agostino d’Ippona, Boezio, Tommaso d’Aquino, William da Ockham e Luis de Molina, per dire i più grandi – rimaneva ancora irrisolto: nella riforma luterana, la volontà umana è sottoposta a quella divina e la scelta virtuosa dipende soltanto dalla grazia.

Il secondo cappio
Con l’avvento della modernità, un’altra potenza cominciò a imporsi, stringendo la volontà umana in un secondo cappio. Malgrado il pensiero scientifico moderno sia nato con l’immagine di una nave che attraversa le colonne d’Ercole dei dogmi e apre la libertà della conoscenza (e malgrado Sir Francis Bacon – che aveva scelto quell’immagine, come copertina del suo libro dirompente – perorasse la necessità di distruggere «gli idoli e le false nozioni che sono penetrati nell’intelletto umano, fissandosi in profondità dentro di esso»), la scienza moderna ha in qualche modo sostituito la tesi dell’onniscienza e dell’onnipotenza divina con l’idea che il mondo sia regolato da leggi naturali, leggi che dominano l’universo nei suoi più reconditi elementi, fin nella mente degli umani, nella genesi delle loro credenze, nella determinazione dei loro gusti, nelle loro inclinazioni, nei loro desideri e nelle loro scelte. Sebbene gli umani non lo sappiano, non se ne rendano conto.

Resta in piedi l’eventualità che sia soltanto una convenzione, un’apparenza, una sorta di illusione, cui soggiace chi non conosce e non si cura di quelle leggi oggettive del mondo, rivelate dalla scienza moderna ai sapienti, a determinare cosa indichi il termine «libertà». In un quadro del genere, potremmo essere tutti vittime di un auto-inganno, come suggerisce l’ultimo libro di Giuseppe Trautteur, – Il prigioniero libero (Adelphi, pp. 140, € 18,00), che affronta con strumenti aggiornati e dovizia di riferimenti questo problema antichissimo, ancora ingarbugliato.

Compatibilisti e non
Nel corso del Novecento, chi si è occupato della libertà personale (o del «libero arbitrio») e del suo rapporto con i risultati della scienza lo ha fatto grosso modo secondo tre diversi atteggiamenti: per mostrarne l’inconsistenza; per proporre soluzioni; per dichiararlo insolubile. Se il problema viene posto come un interrogativo che riguarda la compatibilità tra l’intuizione di essere liberi (almeno talvolta, e nel profondo) e la convinzione che ogni processo naturale sia regolato da leggi, allora le diverse posizioni rispetto al problema possono essere riferite grosso modo a due classi: quella dei compatibilisti (che non vedono il problema, o propongono soluzioni) e quella degli incompatibilisti, a loro volta distinguibili in due gruppi: i «credenti» (o «libertari»), per i quali l’intuizione di poter agire e scegliere liberamente è prevalente (e teoricamente irrinunciabile), rispetto alle pretese egemoniche del naturalismo; e gli «scettici», per i quali il problema filosofico della libertà personale è insolubile (o, comunque, ancora irrisolto), se addirittura non costituisce una mera illusione (perché, in verità, noi non siamo affatto liberi).

Invece di tornare sul tema da una prospettiva puramente filosofica, Giuseppe Trautteur mette in campo la sua grande esperienza di uomo di scienza, per affrontare le aporie e i dilemmi di questa questione centrale dell’antropologia filosofica e dell’etica. Lo fa, attraversando con eleganza il dominio della teoria formale delle decisioni, l’assiomatica della responsabilità personale, le concezioni contemporanee che riguardano il tempo, il rapporto tra determinismo e prevedibilità, la semantica del termine libertà, gli studi neurologici sui «potenziali premotorii» (le attività della corteccia celebrale che anticipano i movimenti volontari), il concetto stesso di «illusione» e l’impasse che ancora sussiste – a parere di Trautteur – nel concettualizzare e risolvere in modo soddisfacente il problema del «prigioniero libero». Una impasse che potrebbe dipendere da dissonanze e polifasie cognitive, cioè dal fatto che continuiamo ad applicare modi distinti di conoscenza (il sapere scientifico e l’intuizione personale) a oggetti che non sono tra loro coerenti (il funzionamento del nostro corpo e del nostro cervello, versus l’esperienza personale della nostra libertà, a livello cosciente).

Tra scienza e intuizione
Viene allora alla mente un’osservazione di Wilfrid Sellars, a proposito del rapporto tra immagini scientifiche e immagini «manifeste»: «l’immagine scientifica è una idealizzazione; è l’integrazione di una molteplicità di immagini, ciascuna delle quali è l’applicazione di una struttura di concetti che hanno una certa autonomia. Dunque, la immagine scientifica è un costrutto, a partire da un certo numero di immagini, ciascuna delle quali è sostenuta da immagini del mondo manifesto».

Se questo ha un senso, l’impasse che Trautteur registra alla fine del suo libro potrebbe dipendere soltanto da una differenza tra livelli distinti del linguaggio: quello dell’intuizione, e quello della scienza. Oppure, meglio: il linguaggio dell’antropologia filosofica versus quello delle discipline che si occupano della percezione, della memorizzazione, dell’elaborazione di informazioni e degli esiti (di ordine psichico, somatico, motorio) che quelle elaborazioni producono. Però, forse, una «soluzione» del genere non lo acquieterebbe affatto.