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Giuseppe Penone, il disegnatore del, e nel, tempo

Giuseppe Penone, il disegnatore del, e nel, tempoGiuseppe Penone, «Pins (Spilli)», 1989; Philadelphia Museum of Art

Al Philadelphia Museum of Art L'artista italiano ha donato due gruppi organici di disegni, trecento unità l’uno, al Pompidou e al museo di Filadelfia: quest’ultimo realizza una mostra-pivot che ne descrive la fluidità processuale

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 18 dicembre 2022

Quando nell’estate del 1480 i Turchi sterminarono gli Ottocento Martiri del Duomo di Otranto cancellarono pure le sue celeberrime decorazioni, dalla loro iconoclastia considerate sacrileghe. Risparmiarono però l’Albero della Vita, il pavimento a mosaico realizzato dal monaco Pantaleone nel XII secolo. Non si trattò di rispetto estetico ma, per così dire, iconologico: il Turco si rese conto che oltre alle storie dell’Antico Testamento (il Peccato, la Cacciata, Caino e Abele, il Diluvio, la Torre di Babele) erano rappresentate pure storie profane (l’ascesa al cielo di Alessandro Magno, Orlando a Roncisvalle) nonché figurazioni senza riferimenti precisi come i mesi dell’anno nella sezione centrale del «tronco». Interdetto di fronte a un simile sincretismo, l’iconoclasta sospese la sua opera e così l’intera immagine si salvò. Singolarissima la struttura «temporale» dell’Albero: gli episodi storici più recenti non sono in cima, sulle «fronde», bensì fra le «radici»; la «chioma» ospita invece il racconto della Creazione. Come se la Vita avesse portato con sé, verso l’alto, la «memoria» della sua nascita e del suo primo sviluppo. O come se l’immagine mimasse la memoria di chi la osserva: con in primo piano gli eventi più recenti e solo après coup l’avvicendarsi delle stagioni del mondo.

Di paradossi temporali brulica l’arte di Giuseppe Penone, che sin dall’origine del suo percorso (con le esplorazioni del proprio paesaggio d’origine, nei dintorni di Garessio nell’Alta Val Tanaro) esplora lo sviluppo delle fibre vegetali, e poi i processi di sedimentazione cristallizzazione erosione che fanno del Tempo, per dirla con Marguerite Yourcenar, il Grande Scultore. Un’opera come Essere fiume (1981) è un manifesto: l’artefice umano ripete l’azione dell’acqua sulla pietra, accelerandone in modo vertiginoso la morfogenesi. In questo modo ci fa capire come l’agire umano sia parte di quello naturale. Contrapporre l’uno all’altro non solo è un errore cognitivo ma un autolesionismo catastrofico: il rispetto della materia che ci circonda, ama ripetere Penone, «non è un atto di amore, ma di egoismo, se vogliamo che la nostra specie sopravviva».

«Tautologico» definisce Penone, con termine figlio della stagione «concettuale» in cui si è formato, l’atteggiamento di chi impieghi le stesse materie dei fenomeni che rappresenta, e ripeta oltretutto il loro stesso vettore di sviluppo. Ma c’è un aspetto del suo lavoro che vi inserisce una discontinuità «progettuale»: il disegno. Sin dall’inizio Penone ha l’usanza di portare con sé nelle tasche della giacca fogli di carta dove appuntare frasi e schizzare appunto disegni. Come dice ad Alain Elkann nel bel libro-intervista 474 risposte (Bompiani, pp. 360, euro 35,00), è in quelle tasche che si trova il suo «vero studio».

Per questo suo valore di laboratorio ideale, e quasi enciclopedia dei propri possibili, Penone deve avere a lungo esitato a mostrare, e soprattutto ad alienare, un patrimonio grafico anche quantitativamente macroscopico, ma soprattutto dalla qualità sorprendente (unica, c’è da pensare, nella sua generazione: forse solo la mano di Giulio Paolini si può paragonare alla sua). Il gesto di donare due gruppi organici di disegni, di circa trecento unità l’uno, in parallelo al Centre Pompidou e al Philadelphia Museum of Art indica forse un’intenzione di bilancio, se non di complessivo ripensamento (cui alludono anche la sistematizzazione dei suoi ricordi e riflessioni nel libro con Elkann, o la nuova edizione dei suoi Scritti data a Electa e curata da Francesco Stocchi in occasione dell’installazione Idee di pietra, la scorsa estate alle Terme di Caracalla).

Giuseppe Penone, «Breaths (Soffi)», 1977, Philadelphia Museum of Art

Ora Carlos Basualdo, con la collaborazione di Lara Demori, ha realizzato con questi materiali una mostra-pivot: sin dal titolo River of Forms: Giuseppe Penone’s Drawings (Philadelphia Museum of Art, fino al 26 febbraio) allude alla fluidità processuale dell’opera di Penone: il flusso «leonardiano» dei disegni (riconosciuto come tale dalla più attenta critica recente) rappresenta il fiume del suo immaginario mentre le sculture sono le pietre che ne emergono punteggiandone il corso. I disegni danno forma a quanto «precede l’esecuzione delle sculture» ma anche a quanto ne «permane dopo il loro completamento»: quella dell’artista, conclude Basualdo, è una «logica spiraliforme che rifugge dalla cronologia lineare».
Ricorda Lara Demori il passo delle Vite (al quindicesimo capitolo dell’edizione giuntina) dove Vasari definisce il disegno il «padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura»: tale paternità «procede dall’intelletto» e per questo riconosce un’unità formale «non solo nei corpi umani e degl’animali, ma nelle piante ancora»: di qui «nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente», e il disegno non è che la manifestazione «del concetto che si ha nell’animo». E usa un paragone del quale credo che Penone si ricordi quando ingigantisce – tanto nei disegni che nelle sculture – le proprie stesse unghie, primo strumento in grado di incidere sulla materia: «da questo per avventura nacque il proverbio de’ Greci “Dell’ugna un leone”»: «vedendo scolpita in un masso l’ugna sola d’un leone» si può desumere «tutto l’animale». Vale lo stesso, si capisce, per le parti del corpo dell’artefice che si propagano (per usare un verbo squisitamente penoniano) nell’ambiente.

In questo Penone assimila la scrittura al disegno (eloquente un Progetto per cuneo alfabeto del ’69 in cui le lettere s’inseriscono nella stessa matrice vegetale): «la mia è una scrittura che è legata all’azione e alle idee che la generano, non ha altre ambizioni». Come il ductus della grafia manuale o l’altra «scrittura» che tanto lo affascina, quella delle impronte digitali, il disegno «ha un carattere diverso da persona a persona» ma a differenza della scrittura verbale «il disegno può permettere di comunicare anche con persone che hanno un linguaggio sconosciuto». È dunque l’«espressione più vicina all’idea di origine dell’opera», ma anche quella a più diretto contatto con la materia: nel disegno come nella scultura «l’immagine che nasce da un contatto è anche dovuta al peso della pressione che si esercita toccando la superficie».

Il come volevasi dimostrare di questo vero e proprio discorso sul metodo è l’opera che corona in modo spettacolare la mostra di Philadelphia: Pensieri e linfa (2017-’18), un’incredibile striscia di lino lunga circa trenta metri, nella cui sezione centrale un tronco verde è realizzato con la tecnica del frottage direttamente toccando la superficie del legno (un tronco d’acacia sul quale ha fatto scorrere foglie di sambuco), ma sopra e sotto scorre in due versi un altrettanto ininterrotto flusso di scrittura a mano. Uno «stream of consciousness» (Demori): dove la metafora joyciana rende tanto il susseguirsi di un unico, formidabile periodo (che occupa, nella traduzione inglese di Johanna Bishop, sedici grandi pagine del catalogo) quanto il fluire dei pensieri che riassumono in un’unica, sterminata «frase» il pensiero del suo autore: «una mano che scrive è speculare alla superficie del foglio su cui pone i segni della scrittura e (…) l’impronta lasciata da una mano nella materia unisce il corpo alla realtà che lo circonda e lo integra al mondo delle cose».
Quello che non dice qui Penone è che l’abbraccio che dà alla natura è lo stesso che la sua opera dà a noi. «Così – dice – anche il visitatore è fluido tra i fluidi».

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