Non è morto a scuola e non è morto nemmeno al lavoro Giuseppe Lenoci, 16 anni, ma a metà tra questi due mondi, in una zona talmente grigia da sembrare nera. Lo schianto, avvenuto lunedì in una strada di campagna in provincia di Ancona, ora è oggetto anche di un’inchiesta per omicidio colposo: il conducente del furgone della ditta Termoservicegas di Fermo, sopravvissuto e ricoverato all’ospedale regionale di Torrette, sarà sentito dalla procura appena le sue condizioni lo permetteranno. Pugliese di famiglia, il papà Sabino muratore, la mamma Francesca badante, Giuseppe stava svolgendo uno stage nell’ambito del suo percorso all’istituto di formazione professionale Artigianelli di Fermo. Un orgoglio cittadino: nato come «scuola di arti e mestieri» nel dopoguerra, ha formato oltre tremila lavoratori poi finiti a ingrossare le file della manodopera nella miriade di aziende e aziendine del territorio. Il paese dove viveva Giuseppe, Monte Urano, per quanto molto piccolo (ottomila abitanti) è una zona artigianale di riconosciuto rilievo. Qui si fanno soprattutto le scarpe, ma il lavoro di bottega è in generale un piccolo culto che rende concreto il luogo comune della provincia industriosa e capace di produrre qualità e farsi valere in Italia, in Europa, nel mondo intero. Lo scorso settembre le gazzette locali hanno dato con parecchio clamore la notizia che Chiara Ferragni aveva scelto per sua figlia Vittoria delle scarpine da culla made in provincia di Fermo. Perché da queste parti il buon nome, l’etichetta, il riconoscimento pubblico contano tanto quanto il fatturato. E per sostenere il sogno c’è bisogno di manodopera: se fino a pochi anni fa era difficile trovare aziende disposte ad accollarsi qualche giovane da formare, adesso gli imprenditori fanno la fila davanti agli istituti di formazione. Perché il fu lavoro povero ormai è diventato lavoro gratis, d’altra parte il vecchio operaio non specializzato può essere tranquillamente uno studente di 16 anni «in formazione».

PER LA CRONACA, PER LA STORIA e per la geografia, siamo nel cuore dell’impero di gente del calibro di Annarita Pilotti di Loriblu, di Enrico Bracalente di Nero Giardini, dei Della Valle, che nella vicina Casette d’Ete si sono intitolati da soli una scuola elementare, tanto per chiarire chi è che comanda davvero.

Ma quali erano le prospettive di vita di Giuseppe Lenoci? Piuttosto alto di statura, fisico da battaglia, il ragazzo domenica era sceso in campo con la maglia gialla e nera del Monte Urano Campiglione, fanalino di coda nel girone F della Terza Categoria marchigiana, il sesto e ultimo gradino dilettantistico del campionato italiano di calcio. A giugno si sarebbe diplomato come operatore per impianti termo-idraulici. Era bravo, dicono tutti. Aveva imparato in fretta il lavoro e si era dimostrato spigliato, responsabile, educato, attento. Uno di quelli a cui poi si fa un contratto vero. «Collaboriamo da anni con le aziende del territorio – dice il direttore dell’Artigianelli, padre Sante Pessot –, i nostri ragazzi vivono le esperienze di stage con entusiasmo e serietà. Molti di loro trovano lavoro già durante il percorso di studi. Una scuola professionale vive di attività pratica, non esiste una formazione al lavoro che non passi per il lavoro».

I CENTRI DI FORMAZIONE sono gestiti dalle regioni, che decidono come strutturarli e quanto finanziarli attraverso fondi europei che passano anche per il ministero del Lavoro. Altrove, per gli stagisti, è prevista una piccola retribuzione, nelle Marche il periodo di apprendistato si considera attività curricolare e quindi di mezzo non ci sono soldi. Là dove però il ministro Patrizio Bianchi dice che, nel caso del giovane Lenoci, non si debba parlare di «alternanza scuola lavoro», nei bandi diramati dalla Regione Marche per il Fermanelli, la dicitura – appunto, «alternanza scuola lavoro» – compare sempre. Termini impropri? Il concetto non cambia. «È un sistema in cui gli studenti vengono messi a lavorare nello stesso identico contesto in cui muoiono quattro persone al giorno», sottolinea la Fiom in una nota, chiarendo che la questione di forma conta fino a un certo punto: qui si parla di un sedicenne morto mentre svolgeva un’attività di carattere lavorativo.

LA ZIA DI GIUSEPPE, Angela, ha parlato con i cronisti, facendosi portavoce del dolore e del disappunto dell’intera famiglia. «La tragedia si poteva evitare – dice –, non era assolutamente prevista l’uscita dall’azienda». Del punto se ne sta occupando l’avvocato nominato dai Lenoce, Arnaldo Salvatori, che pure ieri si è recato all’Artigianelli per cercare di capire qualcosa in più sui rapporti tra l’istituto e l’azienda dove Giuseppe faceva il suo tirocinio. «Dovranno fornirci tutti i dati per verificare la regolarità dello stage – dichiara Salvatori –, il tutor dovrebbe essere lo stesso titolare dell’azienda». A quanto si apprende, però, il conducente del furgone è un semplice dipendente.

DETTAGLI, PEZZI NECESSARI di una storia dolorosa che ha ammutolito il paese e ha scatenato le ire degli studenti. Giovedì, come in tutta l’Italia, a Fermo andrà in scena un corteo che, però, a questo punto assume una connotazione del tutto particolare. «Bisogna ripensare completamente il rapporto tra scuola e lavoro – sostiene Bianca Chiesa dell’Unione degli Studenti –, non è pensabile che uno studente di 16 anni muoia così mentre dovrebbe essere altrove a studiare, a formarsi. È una questione che va ripensata strutturalmente». A partire da un dato di fatto piuttosto banale: non si può morire sul lavoro, non si può morire a scuola. Non si può morire a sedici anni.