Dispongo sul tavolo davanti a me, come mi preparassi ad un giuoco di carte, un cospicuo numero di fotografie. Indugio sulla prima. È incollata su un cartoncino duro che sul retro ha impresse in similoro tre insegne reali. Sovrastano la scritta «Brevetto d’invenzione» in maiuscolo e, in caratteri corsivi, il nome «Luigi Cella». Corsivi che davvero sembrano ‘correre’ a formare un gioco di nastri tra le volute dei quali distintamente si legge: «Editore Fotografo. Riproduzioni ed Ingrandimenti. Vedute di Messina». E sotto: «Messina. Via S. Camillo N° 36».

Poi, in corpo più piccolo: «Specialità per Bambini». Torno al dritto della carta ove, in una immagine tra il colore della castagna e il seppia, si stagliano due figure in piedi: un ragazzo e un sacerdote. Seguo la fila interminabile di bottoni dell’abito talare e i risvolti del lungo cappotto che vanno ad adagiarsi sulle scarpe lucide. Con la sinistra tiene la falda circolare dell’emisferico cappello ‘romano’, mentre poggia la mano destra sulla spalla del giovinetto che gli sta accanto. Costui – mostra meno di quindici anni – è per certo l’allievo alla educazione del quale il religioso si dedica, lui, insegnante a sua volta ancor giovane d’anni, glabro, tagliati corti i capelli, uno sguardo chiaro, che indovini possa divenire inflessibile, dritto all’obbiettivo.

Lo scolaro ha l’aria che davanti al fotografo era necessario nell’Ottocento assumere per non guastare, con un pur minimo movimento, il risultato della posa. E pure v’è qualcosa di vivo nell’effigie di quel giovinetto, in quella sua mano sul petto col pollice infilato tra i bottoni della giacca e nella posizione della gamba sinistra posta innanzi, ma appena, come ad accennare un passo.

Possiamo calcolare che l’immagine fotografica realizzata da Cella risalga al 1892 o al 1893. Quel giovinetto è infatti Giuseppe Lombardo Radice, che era nato a Catania nel 1879, e sue e dei suoi familiari sono tutte le fotografie che ho messo in ordine sul mio tavolo. Nessuna lo ritrae in vesti che possano dirsi ‘ufficiali’. Non riguardano episodi di vita ‘accademica’ (dal 1911 al 1922 titolare di Pedagogia all’Università di Catania e, poi, dal 1924, a Roma, alla Facoltà di Magistero della Sapienza.

Mi piace pensare però che un suo ritratto in formato carte de visite dei messinesi «F.lli Pacino Fotografi» Giuseppe abbia dedicato ai genitori quando si iscrive alla Scuola Normale di Pisa, con queste parole: «Ai miei genitori che sono per me la cosa più sacra della mia vita, nella speranza che mai possano vedere in me un figlio degenere, Peppino. Messina 20 10 1897». Mi par di cogliere qui nel suo sguardo la serietà di propositi e il senso di dedizione agli studi e l’impegno civile che contrassegneranno l’intera sua vita.

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Ma le fotografie che ho disposto in ordine, non testimoniano nemmeno il suo rilevante ruolo ‘ministeriale’, quando, tra il 1923 e il 1924, è alla Direzione generale delle Scuole elementari, impegnato con Giovanni Gentile nella riforma dell’istruzione. E neppure una fotografia ci porta nella Messina distrutta dal terremoto del 1908 allorché, sospesa la traduzione della Critica della ragion pura di Immanuel Kant, si diede all’organizzazione dei soccorsi. Considero che anche le cinque del 1917 che ho davanti, Lombardo Radice volontario al fronte, sono immagini ‘disarmate’. Dietro ad una, assai bella, seduto in controluce, scrive con una qualche goccia di autoironia: «Il centurione che riposa nelle ore calde».

E il 18 dicembre in una copia ritoccata e in parte sbiancata che invia alla famiglia: «Incolpate il fotografo di questa stupida divisa bianca! Ha creduto di farmi piacere, povero diavolo! Non faccio più in tempo a mandarvi un ritratto meno…inverosimile! Ma valga questo per augurarvi il buon Natale! Peppino».

Il mannello di queste immagini familiari mostra come i tre figli crescano e come Peppino e la moglie Gemma Harasim invecchino. Davanti al paesaggio montuoso del Cadore, osservo Lombardo Radice seduto su una pietra, in pieno sole, intento a scrivere, nel luglio del 1938. Pochi giorni dopo, il 16 agosto, muore a Cortina d’Ampezzo, alla soglia dei sessant’anni.