«Era chiaro che questa cosa non si poteva fare».

Ma come, professor Giuseppe Berta, lei sarà anche uno dei massimi conoscitori del mondo dell’auto ma tutta la grande stampa magnificava e dava per scontata la fusione Fca-Renault…
Lei ha mai visto che due si mettono insieme per sposarsi in tempo rapido, ma tutto il successo del matrimonio dipende da un ménage a trois con un terzo soggetto che sta in Giappone, il quale al massimo può essere un’amante ma non vuole assolutamente parlare di impegni con gli altri due?

Effettivamente l’avversione e l’astensione di Nissan sembra essere stata decisiva e mal calcolata da Fca. Ma senza i giapponesi la fusione aveva poco senso, no?
Da parte dei francesi l’idea era: più passa il tempo e più non riusciamo a venire a capo dell’alleanza con i giapponesi. Fondendoci con Fca ci rafforziamo e speriamo che i giapponesi ci diano retta. Neanche per sogno: i giapponesi hanno capito che li stavano fregando e dunque diffidenza massima. Dopo l’affaire Ghons i giapponesi badano a rafforzare la loro posizione. Per Fca invece l’idea era: negli Stati Uniti andiamo bene, qua in Europa malissimo – meno 6% a maggio. Dicevano: «Faremo gli investimenti», ma solo a parole: evidentemente aspettavano l’esito di questa fusione. Ma l’operazione sarebbe stata unire due gruppi in difficoltà, in appannamento strategico. Unendo le forze speravano di aver più margine di movimento ma hanno sottovalutato gli aspetti geopolitici. In questo nuovo sistema dell’auto i vincoli politici – lo vediamo con Trump – sono oramai più importanti di quelli economici. Gli stati sono tornati a dettare le condizioni, usano tutti i mezzi, una cosa impensabile anche fino ad un paio di anni fa. Fine della globalizzione pura.

È una buona notizia dal punto di vista marxista.
Sì, se fossimo capaci di contare. In Italia abbiamo sbaraccato tutto, non abbiamo più una politica industriale.

Colpa del governo italiano, dunque? Non le sembra paradossale che Agnelli sia in difficoltà e attacchi Macron dopo che qui in Italia non ha dovuto trattare con nessun governo?
Ma certo. Questo governo arriva dopo un silenzio assordante che dura da 10 anni. Le parti di colpa devono essere proporzionali rispetto ai tempi: ci sono governi che ne hanno molte di più di. Detto questo, noi ora siamo sovranisti, ma solo a parole, i veri sovranisti qui sono stati i francesi. Noi amiamo la retorica, gli altri i fatti.

Chi ci avrebbe guadagnato dall’alleanza?
Al momento da questa operazione hanno guadagnato Goldman Sachs, le banche di investimento, i grandi studi di avvocati e un signore in specifico che si chiama Mike Manley (il ceo di Fca che ha venduto azioni per 3,5 milioni di dollari nel momento di massimo valore durante la trattativa per «ragioni personali», ndr) che ha messo un po’ di fieno in cascina, come si diceva una volta.

Pensa che ora gli Agnelli glielo rinfacceranno? La posizione del prediletto e successore di Marchionnne è salda?
Manley non ha avuto un ruolo in questa vicenda. L’operazione aveva più rilevanza finanziaria che di prodotto e quindi ha avuto più ruolo il Chief Financial Officer Palmer, che difatti doveva finire nel consiglio. Manley è un tipico uomo «stile Detroit», un car guy, uno capace a vendere marchio, non da fusioni. Ma questa fusione non sarebbe mai funzionata non solo per ragioni di architettura.

Il management francese, il presidente di Renault Jean-Dominique Senard, per lei non era all’altezza?
È un signore anziano – lo posso dire perché ha la mia stessa età – tipico manager francese legato alla politica, assolutamente non in grado di pilotare una roba di questo genere. Ci voleva Ghosn (l’ex presidente di Renault arrestato lo scorso inverno in Giappone con l’accusa di aver occultato compensi per milioni, ndr), celebrato ad inizio duemila come un genio per l’alleanza Renault-Nissan. Anche se c’è sempre da ricordare che Marchionne, dialogando con se stesso dall’altra dell’atlantico – perché era a capo di tutte e due le società – ci ha messo cinque anni a fare la fusione Fiat-Chrysler; per Renault-Fca ne sarebbero serviti dieci.

Sempre la «grande stampa» da noi scriveva che con la fusione con Renault si compiva il sogno di Marchionne…
Dei morti è facile dire l’opinione. Ma io, per come lo conoscevo, non penso che Marchionne l’avrebbe fatta. Per quello che mi disse più volte ho capito che della Francia non aveva una particolare simpatia. E nella fattispecie di Ghosn. Aveva molto rispetto per i tedeschi, per la loro organizzazione.

Cosa succede ora? La fusione a Fca serviva sorpattutto per recuperare il ritardo tecnologico.
Senza dubbio. Fca ha una 500 elettrica in California che costa non meno di 30 mila dollari che possono vendere solo lì e in ritardo tecnologico sulle batterie. Si è aperta la possibilità Renault: se avessero fatto le famose «sinergie» prendevano le piattaforme di Nissan. Adesso devono tornare a investire: Elkann qualche settimana fa aveva detto che la missione di Torino era l’elettrico. Speriamo.

Ma da soli ce la fanno in Fca a recuperare il gap tecnologico sull’elettrico?
Secondo me no. Torna d’attualità una alleanza. Ma i tedeschi non mi sembrano interessati. L’altro che può avere un interesse è Psa ma anche lì c’è il ruolo dello stato. Ci sono gli orientali: Hyundai o i cinesi. Ma con Trump al potere mi sembra difficile. Può darsi che nel giro di qualche mese tutto torni in movimento. Anche negli Stati Uniti c’è una furibonda tempesta tecnologica: Gm e Ford stanno facendo investimenti molto importanti, un’auto elettrica a guida autonoma sarà in vendita nella seconda metà dell’anno.

Torniamo agli Agnelli. Da tempo la Fiom sostiene che la famiglia voglia uscire dall’auto.
Lo sostengo da tempo. Quando uno pensa ad un’alleanza come questa e chiede la presidenza è chiaro che pensa ad un allentamento del peso dell’auto nel portafoglio nell’Exor e una minore esposizione di capitale.