La densa recensione di Caroline Elam sulle pagine del «Burlington Magazine» alla mostra su Giulio Romano tenutasi a Mantova nel 1989 iniziava con una constatazione: la «superb Giulio Romano exhibition» non era stata preparata per un anniversario. Era il frutto di lunghe ricerche, perlopiù seguite al florilegio di iniziative che sei anni prima avevano celebrato il centenario della nascita di Raffaello. Quasi ogni questione affrontata nell’entusiasmo di quell’occasione – un «terremoto internazionale», secondo John Sherman – aveva dovuto subire un paziente riesame. Così l’esposizione dell’89 sul principale allievo di Raffaello riconsiderava molti problemi ancora aperti, confermando Giulio come uno degli emblemi del Manierismo grazie all’interpretazione della dialettica tra l’artista e la corte gonzaghesca: un contesto che sottendeva modelli di vita, strategie formali, convenzioni. Tra Palazzo Ducale e Palazzo Te l’«enourmous exhibition» procedeva come un simposio, in un flusso ininterrotto di scoperte, aggregazioni di materiali e problemi concettuali in via di definizione.
Il «massive catalogue» di quell’esposizione è ora ripubblicato in facsimile da Electa. In epoca di remake e remastering è un feticcio nostalgico: per molti motivi, e in un mondo radicalmente mutato, una replica all’altezza è quasi impossibile. Così dimostrano le due mostre su Giulio aperte di recente a Mantova. Due mostre tra cui, purtroppo, non c’è stato dialogo. Per capire perché bisogna avere la pazienza di mettere in fila la cronaca locale, e avere un po’ di dimestichezza con il sistema delle mostre, delle società di servizi, delle case editrici… A Palazzo Ducale Giulio Romano a Mantova «Con una nuova e stravagante maniera», a cura di Laura Angelucci, Roberta Serra, Peter Assmann, Paolo Bertelli, con la collaborazione di Michela Zurla; a Palazzo Te Giulio Romano: Arte e Desiderio, a cura di Barbara Furlotti, Guido Rebecchini, Linda Wolk-Simon. Entrambe visitabili fino al 6 gennaio 2020.
La prima è, fondamentalmente, una grande mostra di disegni. E lo dico con tutta l’accezione positiva che può avere l’osservazione e il confronto di così tanti fogli, a maggior ragione in un luogo dove alcuni di quei disegni sono stati fulcro di cambiamenti radicali. La maggior parte di questi proviene dal Louvre, partner dell’iniziativa.
L’importanza del disegno per il maestro romano è incalcolabile. Un’attività grafica febbrile «che non ci è memoria di chi abbia fatto più di lui» – scrisse Vasari – e che gli ha permesso di allargare il proprio raggio d’influenza ben oltre Roma e Mantova. Il disegno è al servizio di un’attività creativa smisurata, dai modelli per affreschi ai progetti per edifici a motivi di importanza relativamente minore: posate, stoviglie, vasellame, oreficerie. Vale la confessione che Ercole Gonzaga fece al fratello Ferrante dopo la scomparsa del pittore: «la morte di questo raro homo mi averà almeno giovato a spogliarmi dell’appetito del fabbricar, degli argenti, delle pitture etc. perché infatti non mi basterà l’animo di far alcuna cosa di queste senza il disegno di quel bello ingegno, onde finiti questi pochi, i disegni de’ quali sono appresso di me, penso di sepelir con lui tutti i miei desiderii».
Per assecondare questa foga di «fabbricar» Giulio si avvale di moltissimi collaboratori provenienti da regioni e formazioni diverse. Perciò i risultati sui cantieri sono disuguali; inoltre partecipazione e controllo del maestro non sono costanti e vanno via via scemando. Insomma, a costo di far sembrare l’artista meno simpatico, ciò che nasce e sopravvive a questo mare di carta va guardato come un enorme lavoro d’équipe su cui l’autografia pesa solo in senso lato e la bottega sconfina nella fabbrica.
In alcuni punti la mostra permette di seguire questi passaggi tra ideazione e realizzazione finale. Come nel confronto montato nella camera dei Cavalli tra il bellissimo modello con la Caduta di Icaro disegnato da Giulio e la grande tela a plafone – forse la prima di tal genere nel Rinascimento – dipinta da Fermo Ghisoni. La sala fa parte dell’appartamento di Troia, la cui stanza principale era luogo di rappresentanza, di ricevimenti, e contenitore della collezione d’arte antica. Giulio se ne occupò tra 1536 e 1539. Tra i pochi studi preparatori ancora conservati, in mostra c’è lo splendido disegno con Diomede ferito da Pandaro dell’Albertina di Vienna. L’idea si sviluppa rapida tra lo schizzo a matita e i tratti di penna, con una prestezza che rincorre il pensiero, nel teatro più ampio delle incombenze e della vita che fugge rapida: «un disegno lo faceva in un’ora tutto fiero ed acceso all’opera» perché «il disegnare in lui era come lo scrivere in un continuo pratico scrittore», gli riconosce Vasari. Insomma, per più versi Giulio corrisponde all’artista ideale descritto dall’amico Castiglione nel Cortegiano, incarnazione stessa della «sprezzatura», con una mano che apparentemente «senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore».
In mostra è rappresentata anche una piccola fronda giuliesca – soprattutto Ghisoni e Giovanni Battista Bertani – con qualche inevitabile balletto attributivo su un materiale davvero ostico da districare tra la selva dei collaboratori. Per molti degli aggiornamenti sugli anni mantovani, i rapporti tra Giulio e i suoi aiutanti, la fortuna delle sue invenzioni, gli addentellati tra artisti, committenti e letterati, il catalogo riconosce in diversi casi la dipendenza dagli studi di Stefano L’Occaso, raccolti da poco in Giulio Romano «Universale» (Il Rio, pp. 390, e 35,00). Un volume costruito con scassi d’archivio e affondi riuniti con un dono della sintesi e una passione invidiabili.
Il tema del desiderio, quindi dell’erotismo, è uno di quelli che più smaschera il funambolismo inventivo del grande allievo di Raffaello. L’approccio all’eros di Giulio era più smarcato di quello del suo maestro: meno Bembo e più Aretino, se fosse solo questione di rapporti. In ballo però c’era anche altro, e una coscienza, quella di Giulio, che impasta con naturalezza verità e mito in un mondo ridisegnato dove aleggia sempre una tragica decadenza. Lo smascheramento del sesso dai travestimenti eruditi dei Modi, dove «ci son cazzi senza discretion / e ci ha la potta e ’l cul che gli ripone…», è forse conseguenza di questa schiettezza, ma la diffusione di queste immagini puramente licenziose è pesante da far digerire a Roma. La carcerazione di Marcantonio Raimondi, la distruzione delle copie già stampate e una strigliata papale farà tornare Giulio nei ranghi. A Mantova, quindi, la misura è ritrovata, e sulle pareti del Te l’eros torna nell’Olimpo, tra storie di dei e immagini sulle quali gli uomini di potere possono scherzare e fare paragoni senza vergogna. La mostra di Palazzo Te, con il bellissimo allestimento di Piero Lissoni e Gianni Fiore, cerca di affrontare l’argomento raccogliendo una manciata di testimonianze sul tema che si pongono a corollario dei Due amanti, il dipinto splendente, sistemato da un recente restauro, realizzato dall’artista a Roma nel 1524 su richiesta di Federico II Gonzaga. Con la Donna allo specchio, pure esposta, era già stato il visual highlight per la maggior parte dei visitatori della mostra dell’89. Tra ruffiane spione e riflessi i due quadri mettono l’osservatore, non senza sarcasmo, nel ruolo di voyeur, sollecitando un ragionamento sulla potenza seduttiva delle immagini che può aver ideato solo chi sulla loro produzione è stato tanto «fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale» come Giulio.