«Incident». Così, senza che nessuno replicasse, il 1° dicembre scorso ai Mediterranean Dialogues di Roma il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukri ha definito l’omicidio di Giulio Regeni. Ecco alcune traduzioni possibili: incidente, scontro, episodio, evento, fatto, affare, inconveniente, contrattempo, caso.

Quello che in Italia viene da molti chiamato il «caso Regeni» (come se il suo sequestro, la sua sparizione, le torture subite e la sua uccisione avessero avuto un che di casuale), per l’Egitto da ormai quasi due anni è un inconveniente, un contrattempo e nulla di più.

Una questione da chiudere, continuando a perdere tempo, a non collaborare con la procura di Roma, a fare vuote promesse negli ormai sempre più frequenti incontri bilaterali. Un obiettivo al raggiungimento del quale l’Italia sta dando una mano dal 14 settembre, giorno in cui le relazioni diplomatiche tra Roma e Cairo sono tornate normali a seguito del rientro dall’ambasciatore d’Italia nella capitale egiziana. Oggi Amnesty International ha scritto, per il terzo consecutivo «14 del mese», chiedendo al governo quali passi avanti siano stati sollecitati e ottenuti nella ricerca della verità per Giulio Regeni.

Al presidente del Consiglio Gentiloni sono state sollecitate «informazioni sulla nomina della figura di supporto tecnico alle indagini sulla vicenda di Giulio Regeni di cui non abbiamo più avuto notizia». Al ministro degli Esteri Alfano è stato chiesto se, «durante l’incontro con il Suo omologo egiziano, Sameh Shoukri al Parco dei Principi di Roma, il 30 novembre u.s, il progresso delle indagini per l’accertamento della verità sulla sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio sia stato oggetto di discussione».

Le precedenti lettere non hanno ricevuto risposta.

Nel frattempo, come riportato da il manifesto appena l’altro ieri, le sparizioni forzate in Egitto proseguono senza sosta e l’Associazione dei parenti degli scomparsi subisce, come altre Ong, una dura repressione.

Il suo cofondatore, Ibrahim Metwally, padre di uno scomparso, è giunto al terzo mese di detenzione senza processo.

Come a dare il benvenuto all’ambasciatore, alla vigilia del rientro al Cairo, Ibrahim era stato arrestato il 10 settembre mentre era all’aeroporto del Cairo e stava per prendere il volo per Ginevra dove avrebbe dovuto incontrare il Gruppo di lavoro delle Nazioni unite sulle sparizioni forzate e involontarie.

Dopo due giorni di sparizione, Metwally era comparso di fronte a un giudice per l’incriminazione: cospirazione con entità straniere per sovvertire l’ordine costituzionale, reato che potrebbe comportare la condanna a morte.

La cofondatrice dell’associazione, Hanan Badr-el Din, moglie di uno dei primi scomparsi dell’era al-Sisi, è stata arrestata il 6 maggio di quest’anno mentre stava visitando un detenuto, nella speranza che potesse darle qualche notizia sul marito. L’ultima volta l’aveva visto di sfuggita, ferito, in un servizio televisivo su una delle tante manifestazioni disperse con la forza. Rischia almeno cinque anni di carcere. Cercare i propri familiari, organizzarsi per denunciare le sparizioni, oggi in Egitto come ieri in Argentina, è considerato un’attività sovversiva. Come peraltro fare giornalismo in modo indipendente.

Dopodomani, dopo oltre 40 rinvii, ci sarà l’udienza di Mahmoud Abu Zeid (detto Shawkan). Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno.

Per aver svolto il suo lavoro, Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: «adesione a un’organizzazione criminale», «omicidio», «tentato omicidio», «partecipazione a un
raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane», «ostacolo ai servizi pubblici», «tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza», «resistenza a pubblico ufficiale», «ostacolo all’applicazione della legge» e «disturbo alla quiete pubblica».

Tra poco più di un mese, il 25 gennaio 2018, saranno trascorsi due anni dall’ultima volta in cui Giulio Regeni venne visto in vita. Due anni senza Giulio, due anni senza verità. Due anni da un omicidio di stato. Né «caso» né «incidente».

* Portavoce di Amnesty International-Italia