Lo chiamano « caso Regeni». Una espressione odiosa e distaccata.

Giulio Regeni era un giovane ricercatore di 28 anni – impegnato sulla questione dei sindacati indipendenti egiziani – sequestrato negli ultimi giorni di gennaio del 2016, torturato e ucciso barbaramente dai servizi segreti del generale golpista Al Sisi – prese il potere nell’estate del 2013 con un golpe sanguinoso che il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk definì «come quello di Pinochet».

Il regime militare del Cairo, dove denuncia Amnesty International ogni giorno spariscono due oppositori (v. anche l’ultima vicenda di Zaky) si è caratterizzato per depistaggi e falsità per allontanare la verità evidente sul barbaro omicidio: la responsabilità diretta di Al Sisi.

Ma c’è un’altra responsabilità che non va taciuta: quella dei governi italiani che si sono succeduti in questi anni.

A partire dal presidente del Consiglio Matteo Renzi che sdoganò il golpista diventato presidente egiziano, andando al Cairo e invitandolo come «uomo nuovo del Medio Oriente» in Italia; un Matteo Renzi, costretto ad impegnarsi per la verità da un vasto movimento che ha sempre visto in prima fila la famiglia Regeni; ma che in realtà fece tutto il possibile per far passare Al Sisi come «innocente» con abili interviste ad autorevoli giornali.

Gentiloni era ministro degli esteri, ma non lesinò promesse, anche quando diventò presidente del Consiglio. Che, dentro una grande puzza di petrolio, promesse sono rimaste.

Ereditate e peggiorate quanto a fumosità e contraddizioni poi dal governo giallo-bruno M5s e Lega. La crisi su un delitto così vergognoso è alla fine passata nelle mani del Conte bis, soprattutto in quelle del signor «voglio i pieni poteri» Matteo Salvini quando era in carica al Viminale ma di fatto guidava anche il ministero degli esteri. La sua linea sostanziale è stata sprezzante e contro ogni principio di legittimità istituzionale e democratica, convinto che «i rapporti con l’Egitto erano più importanti» della verità su Regeni e che tutt’al più questa verità riguardava la famiglia, non la democrazia italiana e l’ambasciatore in Egitto, per lui «paese sicuro», non si toccava nonostante le richieste della famiglia Regeni.

La famiglia di Giulio Regeni

Smentito allora dal neo-eletto presidente della Camera Roberto Fico, che a più riprese incontrò la famiglia Regeni, e per il quale invece la vicenda era dirimente per l’Italia.

Quando, nell’estate del 2019 Salvini ha subito un tracollo di credibilità per effetto delle vicende legate allatragedia dei migranti e si è consumata la rottura con i grillini, ecco che tutto è passato alla nuova, inedita compagine del Conte 2. Paradossalmente sostenuto da Matteo Renzi, dal Pd, due forze che hanno precise responsabilità in merito, ma anche dal M5s che a più riprese ha dichiarato la questione della verità su Regeni una prova del nove del governo, e dalla piccola pattuglia di LeU che su questo è stata sempre chiara, ottenendo anche l’istituzione di una commissione necessaria ad hoc presieduta da Palazzotto.

Perché nel frattempo la faccia tosta del regime militare di Al Sisi, aumentava, e appariva evidente – e denunciata dagli indagatori italiani – la non collaborazione egiziana nelle indagini per la ricerca dei responsabili dell’omicidio.

Nel frattempo fino ad oggi, chiacchiere a parte, l’export di armi e sistemi d’arma all’Egitto del regime di Al Sisi è cresciuto nell’arco di due-tre anni : se nel 2016 era di 7, 1 milioni di euro, passava nel 2017 a 7, 4 milioni, per diventare 69 milioni nel 2018, balzando e centuplicando nel 2019 a ben 871,7 milioni di euro di affari.

In modo parallelo e proporzionale alle rapressione interna del «paese sicuro», che ha 60mila prigionieri politici e che sotto Al Sisi ha aumentato a dismisura il ricorso alla pena capitale: dal 2016 al 2019 almeno 2.400 condannati a morte.

E arriviamo ai nostri giorni nei quali la vendita di due navi da guerra all’Egitto, solo 48 ore fa veniva dichiarata dal ministro degli esteri Di Maio «questione aperta» con tanto di rassicurazione alla famiglia Regeni, alle parole del presidente Conte che l’ha invece rivendicata nel Consiglio dei ministri che l’ha approvata,perché Al Sisi sarebbe «nostro alleato strategico».

Alleato? Ma se è nostro nemico almeno sul fronte per noi caldissimo della Libia dove sostiene l’offensiva del generale della Cirenaica Haftar, mentre noi sosteniamo, pure in armi, il «nostro» sindaco di Tripoli Serraj; e nemico perché a capo di un regime dittatoriale e sanguinario. Sotteso alla fastidiosa puzza di petrolio, ecco allora che avviene un consapevole dietrofront governativo proprio sulle stesse posizioni che furono di Salvini: «L’Egitto è più importante e la verità riguarda la famiglia».

Tanti sono i silenzi e le irresoluzioni di questo governo Conte 2 che pure ha attraversato la stagione inedita quanto drammatica della pandemia e che è stato finora in equilibro tra arroganza confindustriale e nuova disperazione sociale.

A cominciare dai nefasti decreti sicurezza che rimangono, alla condizione dei lavoratori immigrati abbandonati nei ghetti, ai limiti verso la disperazione dei profughi sempre ricondotti alla legittimità della «guardia costiera libica», al «rischioso» ius soli per la cui giustizia tutto è rimandato.

Ma stavolta questo silenzio va rotto.

Davvero non ha niente da dire quella vasta realtà di deputati del M5s che sulla verità per Giulio Regeni hanno alzato la voce anche quando governavano insieme a Salvini?

E la pattuglia di LeU che su questo ha sempre dichiarato la sua indisponibilità ad ogni omissis di Stato, non ha nulla non solo da dire, ma da fare per farsi ascoltare, per cercare di rendere coerente il più possibile l’adesione al governo?

Un’ultima domanda al presidente Conte: ma davvero per la ripresa dopo la pandemia l’Italia, che invece pretende ora un governo di indirizzo sociale, deve continuare a primeggiare nel mercato delle armi?