Fu senza dubbio un sequestro premeditato, quello di Giulio Regeni da parte dei servizi segreti egiziani. E il ritrovamento del corpo del giovane ricercatore, il 3 febbraio 2016 sulla strada da Alessandria al Cairo, fu «un fatto fortuito», niente affatto sicuramente voluto. Il pm di Roma Sergio Colaiocco che è tornato ieri, insieme al sostituto Michele Prestipino, per la seconda tranche di audizione nella Commissione parlamentare d’inchiesta, continua ad elencare gli interrogativi rimasti senza risposta sul caso che lo stesso presidente della Commissione, Erasmo Palazzotto, definisce «non semplicemente giudiziario ma anche politico e diplomatico». Proprio per questo i magistrati chiedono una mano alle istituzioni. Da tempo, dicono, «siamo in attesa che l’autorità giudiziaria egiziana ci risponda alla rogatoria con tre richieste». Palazzotto promette ai pm «tutto il nostro sostegno».

Secondo la procura, prima di essere rapito Giulio fu per due mesi oggetto «né casuale né occasionale» dell’attenzione della National security, alla quale il ricercatore era stato denunciato come spia dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, che voleva vendicarsi per non essere riuscito ad estorcere soldi al giovane italiano. Giulio venne «volutamente ucciso», non morì per conseguenza delle torture, e il suo corpo venne ritrovato solo per caso su una strada «costeggiata da muraglioni alti 3 metri, per chilometri».

Molti passi avanti nella ricostruzione della vicenda sono stati fatti anche senza l’aiuto delle autorità egiziane. Nel dicembre 2018, Colaiocco iscrisse sul registro degli indagati per sequestro di persona cinque ufficiali dei servizi segreti civili e della polizia investigativa egiziani. Ma a pesare sono anche i silenzi del Kenya, che non ha risposto ad una rogatoria inviata da Roma, e «della tutor di Giulio a Cambridge, la prof. Maha Abdel Rahman, che non ha mai collaborato alle indagini».

Per la procura di Roma molto rilevante è la rogatoria del 28 aprile 2019 con le tre richieste. Il primo punto, riferiscono i pm, «riguarda riscontri sul fatto che il maggiore Sharif, uno dei 5 indagati, nell’agosto 2017 fosse a Nairobi dove avrebbe fatto riferimento alle modalità del sequestro di Giulio a una persona durante un pranzo poi ascoltato da una terza; il secondo riguarda l’elezione di domicilio degli indagati; il terzo i tabulati telefonici». La risposta non c’è, e va sollecitata.