Da 22 mesi le parole «ricerca» e «verità» sono sinonimo di Giulio Regeni: da quel 25 gennaio 2016, quando Giulio venne sequestrato al Cairo per essere sottoposto a giorni di sparizione e torture mortali. La «ricerca» era esattamente ciò che Giulio stava facendo nella capitale egiziana.

La «verità» è esattamente quella che chiedono milioni di persone e centinaia di enti locali e luoghi di cultura in Italia. Ma giovedì scorso quelle due parole sono state incredibilmente associate ad Abdel Fattah al-Sisi. A descrivere il presidente egiziano come «interlocutore appassionato nella ricerca della verità» è stato il nostro ministro degli Esteri Angelino Alfano.

Due mesi fa, a settembre, nell’ambito della retorica usata per giustificare il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, lo stesso Alfano aveva definito l’Egitto «partner ineludibile».

Il 7 febbraio 2016, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, sempre Alfano aveva dichiarato: «È stato un pugno allo stomaco, e il respiro non è ancora pienamente tornato. Abbiamo potuto vedere gli esiti dell’autopsia, è qualcosa di inumano, una violenza animalesca (…) Riportare a galla la verità vuol dire anche evitare che altre vite siano spezzate in questo modo (…) Quella morte fa onore all’intera Italia, è il sacrificio di un ragazzo che cercava la verità».

Da allora il respiro è «pienamente tornato», altre vite sono state «spezzate in questo modo» e «riportare a galla la verità» è diventato meno importante. E comunque, tranquilli, a cercarla in modo «appassionato» è il presidente egiziano al-Sisi.

Come siamo arrivati a un punto così basso? Ce lo ha ricordato lo stesso al-Sisi, pochi giorni fa, quando ha fatto riferimento all’immediato riconoscimento politico del governo italiano – oltre a impegnativi attestati di stima personale dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi – dopo il suo colpo di stato del luglio 2013.

Nonostante fosse subito scattata la repressione (con centinaia di morti nelle strade, arresti di massa ma anche imprigionamenti selettivi di attivisti, difensori dei diritti umani e giornalisti), quel rapporto privilegiato l’Italia ha proseguito ad averlo, autorizzando per mesi e mesi l’invio alle forze di sicurezza egiziane di armi e materiali per la sorveglianza.

Le sparizioni e le torture, più che quotidiane, sono state ignorate fino a quando a venire sequestrato e torturato non è stato uno dei tanti «Giulio egiziani» ma Giulio l’italiano. Giulio Regeni. Da allora, piuttosto che ricercare appassionatamente la verità, le autorità egiziane hanno portato avanti una strategia di ricostruzioni ridicole e offensive, depistaggi – uno dei quali peraltro costato la vita a cinque innocenti nella tragica messinscena del «vassoio d’argento» intorno alla Pasqua del 2016 – e ritardi indecenti.

Il richiamo temporaneo dell’ambasciatore, ad aprile dello scorso anno, è stata l’unica decisione assunta dal governo. Ma dopo un anno un’ossessiva campagna politica e mediatica – che si è avvalsa delle opinioni di ex ambasciatori, ex presidenti di Ong, giornalisti e parlamentari, spesso tramite articoli-fotocopia – ha dato il segnale che le relazioni diplomatiche sarebbero state normalizzate di lì a breve.

Quella campagna, ipocritamente, poneva Giulio al centro degli interessi nazionali dell’Italia: la ripresa delle relazioni diplomatiche avrebbe favorito, si diceva, proprio la ricerca della verità. Sappiamo bene, tre mesi dopo la decisione di rimandare l’ambasciatore in Egitto e due mesi dopo il suo ritorno, come stanno andando le cose. Di tutto si è ripreso a parlare (turismo, immigrazione, terrorismo, rapporti economici) meno che di Giulio.

La situazione dei diritti umani al Cairo è ulteriormente precipitata, con la sparizione dell’avvocato Ibrahim Metwally e i tentativi di chiusura della Commissione egiziana per i diritti e le libertà e, da ultimo, con la conferma della condanna a cinque anni per l’attivista rivoluzionario Alaa Abdel Fattah.

Nel frattempo, una doverosa richiesta di rogatoria internazionale per acquisire informazioni utili alle indagini della procura di Roma è diventata il pretesto per la ripresa della latente campagna contro la «perfida Cambridge».

Avranno da nascondere qualcosa?, ha sollecitamente twittato Matteo Renzi, di cui non si ricordano in 22 mesi tweet altrettanto solleciti per chiedere se qualcosa da nascondere l’avessero per caso al Cairo. Nella capitale egiziana ha ripreso vigore il teorema Fratellanza musulmana – Cambridge – Giulio Regeni, in quella italiana la «pista Cambridge» ha ridato fiato alle trombe del complotto. Se non si riesce a prendersela con l’Egitto resta sempre una Cambridge su cui puntare il dito.

Ieri, alla vigilia del secondo mese dal rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, Amnesty International è tornata a chiedere al governo quali «passi avanti», garantiti sempre dal ministro Alfano nell’arsura ferragostana in cui annunciò la piena ripresa delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto, siano stati pretesi e ottenuti nella ricerca della verità per Giulio.

Abbiamo anche chiesto che fine abbia fatto la figura tecnica per le indagini da affiancare all’ambasciatore, di cui non c’è traccia nei documenti ufficiali e nelle interviste ai rappresentanti del nostro governo. Abbiamo chiesto infine che risposta sia stata data all’arrogante convocazione del nostro ambasciatore e di altri quattro suoi colleghi, colpevoli di una «inaccettabile ingerenza», ossia aver espresso preoccupazione per la perdurante detenzione di Metwally.

Se mai per le istituzioni italiane ne abbia fatto davvero e sinceramente parte, Giulio Regeni è uscito dall’interesse nazionale. Resta, e non è affatto poco, nell’interesse delle innumerevoli persone che chiedono verità. O meglio che chiedono che la verità storica e politica che conosciamo – e che ha portato già da subito a definire quello di Giulio «un delitto di Stato» – sia ammessa anche dalle autorità egiziane.

Pensano, quelle persone, che pretendere la verità per un cittadino italiano vittima di un delitto di Stato all’estero sia precisamente un interesse nazionale. Non so se la morte di Giulio abbia fatto «onore» all’Italia intera. Ma orrore sì, sicuramente.
*portavoce di Amnesty Italia