A sei anni dalla scomparsa e l’omicidio di Giulio Regeni al Cairo e a due dall’uscita di Minnena, la casa editrice Mesogea aggiunge un tassello al primo volume, dedicato allo stato della ricerca accademica in Egitto dopo quella brutale uccisione e alla situazione di un paese transitato in appena un decennio dal dinamismo rivoluzionario alla più cupa restaurazione.

LA PAROLA CHIAVE è la stessa, Minnena 2, «parte di noi» ma anche «da parte nostra» in dialetto egiziano.

Stavolta i due curatori, Lorenzo Casini e Daniela Melfa, hanno scelto di ospitare ricercatori e professori egiziani e italiani (Elisabetta Brighi, Khaled Fahmy, Gennaro Gervasio, Mattia Giampaolo, Paola Rivetti e Andrea Teti), accanto alla nota introduttiva di Monica Ruocco, presidente di Sesamo-Società per gli studi sul Medio Oriente, promotrice dell’iniziativa.

Il volume (pp. 96, euro 10) è parte di un percorso in fieri, che si alimenta di contributi diversi per formare un quadro utile a capire l’Egitto di oggi, quello del regime dell’ex generale al-Sisi, e dunque sia l’humus in cui è maturato l’omicidio sia le macerie che ha lasciato dietro di sé.

A partire dalla ricerca accademica che, liberata dall’orientalismo dell’indagine a distanza e finalmente realizzata sul campo, nelle viscere delle società, è stata costretta a fare un dannoso passo indietro.

In Egitto, spiega Fahmy, fare ricerca oggi è un atto di coraggio. Le brutali torture e l’uccisione di Giulio Regeni – la cui ricerca si incentrava su un tema delicato, sì, ma non così controverso da far immaginare una simile reazione dei servizi segreti, soprattutto alla luce della legittimità del metodo di indagine seguito – hanno stritolato i confini dell’accademia, svuotando l’Egitto di ricercatori internazionali e legando le mani a quelli egiziani. Ha istillato paura tra «i migliori ambasciatori dell’Egitto all’estero», studiose e studiosi egiziani che lavorano fuori dalle frontiere nazionali e che ora – dopo il caso di Patrick Zaki e di Ahmed Santawi, il primo sotto processo e il secondo già condannato a quattro anni – temono di tornare a casa.

A GENERARE PAURA è, più di tutto, la nebulosa incertezza di cui ci ciba il regime. La voluta assenza di paletti definiti, di cosa è lecito e cosa non lo è per la mentalità securitaria del Cairo, annichilisce ogni spinta critica. Il caos normativo sfuma i contorni e affida a ogni ingranaggio del regime – che siano i servizi o la magistratura – l’autorità di dare patenti di legittimità.

È la vita odierna del popolo egiziano, fatta di miseria, controllo sociale e autocensura. L’opposto esatto di stabilità. Eppure, spiegano Gervasio e Teti, Stati uniti ed Europa hanno eletto il regime reazionario di al-Sisi a «partner ineludibile» (le parole di un ministro degli esteri italiano). Garanzia di sicurezza, freno alle migrazioni, argine al terrorismo islamista.

Una rappresentazione della realtà fallace e pericolosa: come può un paese retto da una macchina repressiva che deprime la società civile, da una politica economica che riproduce povertà e dalla marginalizzazione di intere aree (il Sinai, su tutti), essere portatore di stabilità in una regione già di per sé fragile come quella mediorientale?

La risposta, in qualche modo, sta nel contributo di Brighi, Giampaolo e Rivetti, luce che si accende sulla propaganda del regime egiziano. Una narrazione avulsa dalla realtà ma che serve allo scopo: nascondere i piedi d’argilla del gigante.

Funziona: come dettagliano gli autori, la propaganda egiziana su Regeni ha attecchito in Italia su «insospettabili» media mainstream e tra una fetta di classe politica e utenti dei social. Gettare un’ombra su Giulio aiuta a relegarlo a brutto ricordo e a tutelare quegli interessi economici a cui l’Italia non ha mai inteso rinunciare.