A scuola Giulio Giorello aveva 10 in greco. Oggi può sembrare un dettaglio irrilevante ma allora era una cosa di cui si parlava nei corridoi del liceo Berchet. Quella memoria leggendaria e la capacità di studiare qualunque cosa a fondo e rapidamente (soprattutto di notte) non gli sono mai venute meno.
Forse perché eravamo compagni di scuola e di università (io di poco più giovane), ho sempre pensato che le qualità che facevano apprezzare Giulio da tutti sono state le stesse che aveva dimostrato in gioventù: la curiosità insaziabile per le cose più disparate — dal greco ai fumetti, dalla poesia alla storia dell’Irlanda, dalla filosofia politica alla matematica — e la capacità di discuterne alla pari con chiunque, che fossero studenti, colleghi o profani, nonostante una profonda e mal celata timidezza. Ma se dovessi scegliere il tratto che preferisco di Giulio, direi il suo strano carattere giocoso e il divertimento che gli dava infrangere i luoghi comuni e la ristrettezza di certe consuetudini, ad esempio accademiche. Eppure aveva un forte senso delle istituzioni e molto rispetto per la sua Alma Mater.

AVEVA UN SENSO dell’umorismo tutto suo e lo divertiva profondamente tessere le lodi di quel liberale di John Stuart Mill, negli anni dell’asfissiante ortodossia marxista, davanti a Lodovico Geymonat che l’aveva convinto, ma per poco, a dedicarsi allo studio del materialismo dialettico. Con Geymonat, per cui Giulio ha sempre provato molto affetto, non poteva andare d’accordo a lungo sul piano delle idee: il maestro era nella sostanza uno stalinista a cui l’invasione sovietica dell’Afghanistan non era dispiaciuta, l’allievo era un libertario che, se mai avesse capito qualcosa di politica (non la capiva), sarebbe stato piuttosto un attivista del Partito Radicale.

A PROPOSITO di perbenismo accademico: molti suoi colleghi lo disapprovavano, ma Giulio dedicava ore e ore dei suoi corsi di filosofia della scienza alla Gloriosa Rivoluzione, all’indipendentismo dell’Irlanda e simili argomenti storici, che lo appassionavano ma appartenevano a settori piuttosto lontani dal suo nelle partizioni accademiche. Il bello è che sapeva inserire quelle divagazioni in un discorso filosofico coerente. La storia del resto lo appassionava e penso che avrebbe potuto essere un grande storico se lo avesse voluto, con la sua curiosità e la sua memoria. Una sua osservazione mi è servita a capire il senso avventuroso di tanti suoi interessi apparentemente disparati: leggere i libri di storia — diceva — è immergersi in altri mondi, esplorarli e scoprirli coerenti, proprio come accade leggendo Il signore degli anelli.
Come riuscisse poi a mettere insieme il liberalismo con la simpatia che professava, almeno con me, per l’Ira irlandese, ala Provisional, non l’ho mai ben capito. Ma forse si prendeva gioco di me e intendeva parodiare l’apologia che Geymonat era solito fare della lotta armata partigiana in Italia. O forse prendeva sul serio le provocazioni dadaiste di uno dei suoi filosofi preferiti, Paul Feyerabend, che metteva in discussione uno dei capisaldi della filosofia di tutti i tempi, l’orrore per le contraddizioni. «Forse che mi contraddico? | Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, | sono vasto, contengo moltitudini» era una delle sue citazioni preferite.

DEL RESTO, il primo dei lavori di Giulio che io ricordi riguardava Imre Lakatos, un filosofo ungherese che era stato hegelo-marxista prima di diventare allievo di Karl Popper e suo successore alla London School of Economics. Da buon ex-hegeliano, Lakatos insisteva sulla fertilità delle contraddizioni e sosteneva, contro Popper e con Feyerabend, che gli scienziati non devono affatto abbandonare una teoria non appena si scopra una prova che la contraddice. Devono invece cercare di difenderla per quanto è possibile dirottando le difficoltà su altre credenze e ipotesi. Sono questi gli autori e i problemi a cui Giulio è rimasto sempre legato nella filosofia della scienza, anche se poi negli anni si è occupato di tante altre cose.
Una cosa che gli ho sempre invidiato era la sua capacità di raccogliere attorno a sé allievi brillanti, che sottoponeva a turni di lavoro massacranti ma con cui sviluppava un rapporto di amicizia che riproduceva in un certo senso il cameratismo tra compagni di liceo. Era generoso con loro, ma non fino al punto di superare la sua avversione per la politica accademica.
Si raccontano spesso le malefatte dei cosiddetti baroni universitari, che riescono a mettere in cattedra il proprio cavallo. Giulio Giorello — va a suo merito — era semplicemente negato per queste cose che sono in fondo meschine. Sono convinto che le menti più brillanti siano anche quelle più inclini alla generosità e più capaci di affetti profondi. Di sicuro la mente di Giulio era di questo tipo.