Credo che esista un modo giusto per ricordare Giulietto Chiesa: rammentare a tutti che lui è stato uno dei più importanti testimoni sul campo della fine dell’Unione sovietica. Che, ben prima di tanti altri aveva compreso come quella costruzione non riuscisse più a stare in piedi e a legittimarsi.

Soprattutto di fronte alla prima guerra che vedeva impegnata la leadership di potere guidata da Breznev in Afghanistan, il Vietnam capovolto che fu da questo punto di vista l’inizio della fine, da subito nel 1979.

Fu lui a credere, proprio di fronte a tanto sfacelo, che l’arrivo sulla scena di un personaggio nuovo, anche se prodotto della nomenklatura, come l’oscuro Michail Gorbaciov con le sue inaspettate proposte di apertura e democratizzazione, della glasnost e della perestrojka, potesse fare la differenza, rappresentando a quel punto l’unica possibilità di salvezza – con la nuova istituzione del Congresso dei deputati del popolo e l’apertura “memoriale” degli archivi sovietici – dell’esperienza sovietica.

Su questo terreno noi lo incontrammo e ci aiutò nel nostro primo lavoro di corrispondenza da Mosca al quale lavorava il giovane inviato del manifesto Astrit Dakli. Quando come ogni buon giornalista fu testimone partecipe dell’ascesa e del disastro dell’esperienza di Gorbaciov, del quale da ammiratore diventò anche amico contraccambiato.

Indimenticabili sono le sue descrizioni del borioso Eltsin che aprì le porte ai satrapi delle privatizzazioni, ai magnati e alla fine avviò l’esperienza nazionalista di Vladimir Putin. È stato tra i giornalisti italiani quello più seguito in Russia. Così tanto da rimanere nel cuore dei russi diventati tra i più assidui lettori dei suoi tanti illuminati testi.

Ma dal crollo dell’Urss in poi Giulietto Chiesa è stato soprattutto un acerrimo nemico di ogni guerra, segnatamente delle tante occidentali. Così come quello che ha maggiormente denunciato l’ambiguità della Nato che, invece di sciogliersi con la fine del nemico, il socialismo realizzato, si è ricostituita guidando nuove disastrose guerre e costruendo la nuova pericolosa strategia dell’allargamento atlantico a est. Che, fra l’altro, schierando nuovi sistemi di arma ed eserciti ai confini russi, alimenta il più pernicioso dei nazionalismi.

Certo nelle sue ultime posizioni non lo seguivamo. Non concordavamo sulla riduzione delle crisi a complotto, né pensiamo che per farsi ascoltare ogni schieramento, anche il più nefasto, vada bene comunque. Cadeva in questo precipizio buio però non per vuoto presenzialismo, ma in assenza di un pensiero critico di sinistra, oppure, peggio, di fronte ad una «sinistra» che guidava i bombardieri «umanitari» della Nato.

Come per la crisi nell’ex Jugoslavia, per la quale fu anche notista del manifesto. E certo avere individuato la stagione ucraina di Majdan come un retroscena di estrema destra, con tanto di neonazisti in piazza, non fa di lui un complottista – una denuncia la sua del ruolo manipolatore degli Usa a Kiev che gli costò l’arresto e l’ espulsione dall’Estonia; non fa di lui un complottista nemmeno essersi interrogato – con troppe risposte sbagliate però – sui limiti delle inchieste ufficiali sull’11 settembre 2001, l’evento che cambiò la storia che ancora stiamo vivendo. Addio Giulietto, testimone scomodo e nemico della guerra.