Un’emozione tangibile ha unito la sera del 31 dicembre il pubblico del Teatro alla Scala per il ritorno al Piermarini di Alessandra Ferri. Étoile assoluta del Piermarini dai primi anni Novanta (e dopo di lei nessuna altra italiana ha avuto la stessa nomina), Ferri diede il suo addio alle scene al teatro nel 2007 con Dame aux Camélias di John Neumeier. Una serata memorabile. Nessuno pensava di rivederla danzare in teatro e invece, dopo nove anni, ha chiuso lei alla Scala il 2016 con uno dei balletti storici della sua vita: Romeo e Giulietta nella versione di Kenneth MacMillan, titolo nel quale lo stesso coreografo la volle, diciannovenne, debuttare al Royal Ballet di Londra.

Da allora Giulietta ha accompagnato carriera e vita di Alessandra, fino a riaverla in scena con sé il giugno scorso all’American Ballet Theatre di New York: A dancer returns at 53, defying Father Time (una danzatrice torna in scena a 53 anni, sfidando il Tempo) titolava in prima pagina il New York Times. Pochi del resto sono quegli artisti che nella danza superano lo scoglio naturale dell’età, ci riescono per l’indubbio talento, ma soprattutto per lo spessore di un affondo personale nelle cose che li rende unici. Baryshnikov, Ferri, nonché figure come Ana Laguna (musa e compagna di Mats Ek, classe 1955) o come alcuni nomi storici di Pina Bausch, vedi Lutz Förster (1953), o coreografi danzatori come Anne Teresa De Keersmaeker (1960) nella ripresa recente del suo capolavoro minimalista Fase.

Ma torniamo a Romeo e Giulietta, titolo che entra nell’anima dei personaggi shakespiriani attraverso la tecnica classica accademica, resa novecentesca dalla revisione di MacMillan che riluce quando in scena c’è grandezza interpretativa, oltre che tecnica, come fu nel 1965 al debutto con Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn.

Accanto a Alessandra Ferri, alla Scala come a New York, c’è Herman Cornejo, 35 anni, Principal Dancer dell’American Ballet Theatre, argentino, un’autentica partnership tra i due per sintonia fisica e sentimentale. Cornejo è un Romeo popolare (come deve essere), frizzante e impulsivo, innamorato e drammatico. Ottima tecnica al servizio del racconto. Alessandra attraversa il balletto regalandoci una Giulietta fremente: assapora quasi stupita la trasformazione, che già nella prima scena con la nutrice Shakespeare le richiede, da fanciulla a giovane donna. La danza di Alessandra racconta in ogni piega l’animo di Giulietta: il personaggio scaturisce dall’interiorità dell’artista (piacerebbe a Toni Servillo che ha trattato il tema nel bellissimo Elvira di Jouvet al Piccolo Teatro) e non si sente il gap tra gesto quotidiano e tecnica, tutto è narrazione.

La scena del balcone è da lacrime per quanto la danza è animata dal sentimento che Herman e Alessandra lasciano scorrere. L’apice è però nel terzo atto: il passo a due nella camera da letto è il corpo che si abbandona al movimento, a una coreografia che è dentro Ferri da sempre: i lifts, gli abbracci splendono per la fluidità naturale della linea dinamica, diventando visione della voce interiore. Poi Romeo se ne va e Ferri/Giulietta sceglie di tornare da Frate Lorenzo.

Famosa in MacMillan la scena di Giulietta, seduta immobile sul letto, mentre la musica cinematografica e potente di Prokofiev esprime il tormento interiore della protagonista. Ferri, artista tragica, entra nella partitura con il volto che consegna al pubblico il travaglio drammatico. E in trascinante crescendo ci porta dall’amore alla morte. 12 minuti di applausi hanno salutato Ferri alla fine dello spettacolo. Un ritorno che ci auguriamo la riporti alla Scala in nuovi titoli.