Che non siamo in un libro di cinema «canonico» lo si capisce dalle prime righe. Eppure nel corso del racconto, tutto alla prima persona, si percorre la storia del cinema italiano dal dopoguerra a oggi, passando per il neorealismo, l’impegno, la politica, e attraversando la Roma degli anni di Via Veneto in cui si ritrovavano i protagonisti di quel cinema amato in tutto il mondo. Un marziano genovese a Roma (Felici Editore, pp. 208, euro 13.50) è l’autobiografia di Giuliano Montaldo, figura «eccentrica» di regista italiano, forse proprio perché calato nella capitale da Genova, scritto a quattro mani dallo stesso Montaldo insieme a Caterina Taricano, giovane studiosa di cinema, giornalista, esploratrice di universi fuori-norma – suo il Castoro su Neil Jordan.

E l’incontro è un passo a due lieve, dal ritmo modulato con sapienza. Montaldo ci dice dell’infanzia, della giovinezza, della vita adulta con i dettagli «visivi» del regista e sceneggiatore che ci portano subito dentro a ogni situazione. E nella complicità di scrittura Caterina Taricano inanella i dettagli della memoria in un percorso di capitoletti «a tema». dove i ricordi si intrecciano a riflessioni «a alta voce». Poco importa si conosce o no il cinema di questo regista (in realtà viene la voglia di vederli o rivederli i suoi film, e con essi i tanti altri di cui si parla ), il libro appunto non è un volume «tecnico» ma una storia d’Italia. Anche se poi i film e la poetica di questo autore si nutrono profondamente della sua vita nelle parole, delle esperienze e delle scelte. Eccoci dunque a Genova, negli anni infantili prima della guerra di un bimbo il cui padre socialista non sopportava l’entusiasmo «innocente» per le divise del fascio. Il fisico corpulento lo ha fatto sembrare più grande della sua età sin dalla nascita, infatti tutti lo chiamano Macisste. Poi arriva la guerra, col dolore e la rabbia di perdere la casa sotto alle bombe. E il ragazzino con la famiglia finisce sfollato.

«Tutte queste cose hanno tracciato la strada del mio impegno politico» dice. Che inizia presto: con gli amici, la volta che sotterrano la macchina da scrivere del podestà. E dopo, quando diventa partigiano, nome di battaglia Leo, e festeggia la liberazione di Genova, il 24 aprile – «un giorno prima» – con il fazzoletto rosso e un tapum in mano.

Un comunista Montaldo ma senza tessera, e ci tiene a dirlo, che al Pci, il Parito comunista italiano non si iscriverà mai. «Credo che la libertà sia anche quella di avere delle idee senza mettersi le manette. A questo proposito Cesare Zavattini una volta mi disse: ’Non iscriverti mai a nulla perché hai il diritto di cambiare il tuo pensiero’. Io il mio pensiero non l’ho mai cambiato ma l’idea di poterlo fare mi ha sempre aiutato a rimanere fedele».

Così anni dopo sarà in piazza a filmare i funerali di Enrico Berlinguer, un momento fortissimo nell’iconografia dell’appartenenza collettiva, Berlinguer che ci dice Montaldo è stato un suo «modello personale».

Ma torniamo indietro, a quel dopoguerra a Genova, dalle cui pagine visualizziamo il neorealismo e la sua urgenza. Il ragazzo Montaldo incontra Carlo Lizzani che lo vuole in Achtung! Banditi! – «salvandolo» da una carriera di filodrammatico e di dongiovanni.

Il cinema comicia lì, e lo porta inevitabilmente a Roma, un «viaggio obbligatorio». È la Roma di Via Veneto e di piazza del Popolo dove si incontrano negli anni Cinquanta Elio Petri, Giuseppe De Santis, Ugo Pirro, Tonino Guerra. E di Otello, il ristorante in cui si danno appuntamento Pontecorvo, Scola, Benvenuti. Age e Scarpelli …

C’è la storia di Cronache di poveri amanti, film bello e mal compreso allora, e la fine della Cooperativa spettatori produttori cinematografici. L’esordio dietro la macchina da presa dopo una miriade di lavori con Tiro al piccione, Ma anche la storia di La battaglia d’Algeri, e della casa di Pontecorvo, a via Massaciuccoli in cui abitavano in tanti, «una specie di comune» nella quale il giovane Montaldo non osa far venire i genitori alla prima visita romana ospitandoli in un albergo di via Veneto… C’è, fondamentale, l’incontro con Vera Pescarolo, la moglie e l’amore di una vita, «Una Vera grinta«. E poi l’America e la crisi oggi … Ma la chiave del libro è questa oscillazione tra la dimensione privata e quella pubblica dei film, del fare-cinema. Che poi sono una, indissolubile, un’avventura di cui le pagine sanno restituire tutta la vitalità.