Probabilmente nessun personaggio antico custodisce il proprio segreto più caparbiamente dell’imperatore Giuliano: rampollo della dinastia cristiana dei Costantinidi eppure estremo, fervente cultore degli dèi pagani, spirito contemplativo e al contempo coraggioso combattente, filosofo votato all’ascetismo ma spesso preda di impulsività e superstizione, l’imperatore morto poco più che trentenne nel 363 d.C. ha rappresentato un enigma per i contemporanei così come per i posteri, da sempre vittime del suo fascino. A fare luce sul dossier giulianeo contribuisce adesso Arnaldo Marcone, professore di Storia romana presso l’Università di Roma Tre, con il suo Giuliano L’imperatore filosofo che tentò la restaurazione del paganesimo (Salerno Editrice «Profili», e 25,00): una biografia che non scivola mai nello psicologismo, prova ne siano i primi capitoli, che delineano lo sfondo politico, filosofico e religioso del IV secolo riservando particolare attenzione alla competizione e alle interazioni fra cristianesimo e culto pagano. Quel che emerge è un panorama del Tardoantico quale campo di tensione, in cui il paganesimo filosofico è attraversato da marcate tendenze spiritualizzanti, se non proprio monoteistiche, mentre il cristianesimo elabora rapidamente una forte identità comunitaria, apprestandosi a ereditare la missione universale dell’impero. Come riconosceva il vescovo Gregorio di Nazianzo, antico compagno di studi di Giuliano, la sua restaurazione del paganesimo non va perciò interpretata come un anacronistico ritorno al passato, ma come il tentativo, fortemente innovativo benché sostanzialmente vano, di strutturare una chiesa pagana centralizzata e gerarchizzata sul modello di quella cristiana. Ciò spiega l’insofferenza dell’imperatore per ogni tipo di esperienza religiosa o filosofica non organica rispetto al suo progetto di riforma, anche in campo pagano: i filosofi cinici, bersaglio di scritti come il Contro Eraclio e il Contro i cinici ignoranti, diventano così sostanzialmente sovrapponibili ai monaci cristiani, e il polemico radicalismo dei primi in nulla è diverso dall’empia ipocrisia dei secondi.
Ma a quando risale la conversione di Giuliano? Una rilettura critica dell’epistolario giulianeo – da maneggiare sempre con cautela, data la sua evidente natura apologetica – consente di ricostruire le tappe di una graduale riscoperta delle forme della religiosità pagana, in cui dovettero giocare un ruolo rilevante l’amore per la cultura ellenica trasmesso dal precettore Mardonio e il contatto con la teurgia neoplatonica di Massimo di Efeso. Negli anni dell’apprendistato in Asia Minore e Grecia prende forma così la vocazione speculativa e filosofica di Giuliano, il quale tuttavia, durante il quinquennio del cesarato in Gallia (355-360), darà prova anche di eccellenti doti militari. Così, quando le truppe di stanza a Parigi lo acclamarono Augusto nel novembre del 361 – Marcone parla efficacemente di putsch per l’usurpazione –, la missione divina di Giuliano sembrò definitivamente prendere corpo: egli stesso, nei suoi scritti, elaborò una spiegazione provvidenzialistica dell’ascesa al trono, apparentemente confermata dall’improvvisa morte di Costanzo II, che risparmiò all’impero lo scontro campale con il predecessore.
Una volta al potere, Giuliano si distinse per un ambizioso piano di riforme fiscali, legislative e religiose, riletto da Marcone come un tentativo coerente di riforma dello Stato, in parte osteggiato anche da ambienti di corte, con cui l’imperatore ambiva a dar vita a un nuovo apparato burocratico-amministrativo e a una nuova organizzazione del culto pagano, entrambi funzionali al dominio di un re filosofo e sacerdote. Dietro lo sbandierato ritorno all’Ellenismo si celava dunque un progetto politico e religioso largamente innovativo, che dovette spiazzare molti contemporanei. Una delle novità di questa biografia è proprio il tentativo di interpretare le riforme giulianee a partire dall’orizzonte delle aspettative delle élites e della plebe rispetto alla condotta generalmente attesa da parte di un imperatore tardoantico: diventa così comprensibile non solo perché il governo di Giuliano non godette mai del favore di Temistio, il grande retore pagano che era stato proconsole di Costantinopoli sotto Costanzo II, ma anche la cruciale crisi antiochena, a cui è dedicato uno dei capitoli più innovativi del volume.
I fatti sono noti: dopo aver trascorso pochi mesi a Costantinopoli, Giuliano scelse come propria residenza Antiochia, dove si trattenne per circa otto mesi, dal luglio del 362 al marzo del 363. La scelta di Antiochia, capoluogo della provincia di Siria e residenza del prefetto del pretorio d’Oriente, fu dettata senz’altro dalle esigenze dell’imminente spedizione persiana, ma anche dal fatto che la città, sede della scuola filosofica di Libanio nonché di numerosi culti pagani, sembrava prestarsi meglio dell’ormai cristiana Costantinopoli all’attuazione del suo radicale piano di riforme religiose. Antiochia come ideale laboratorio per il regno dell’imperatore-filosofo, dunque; eppure, al di là della crisi alimentare del 362, l’imperatore e gli Antiocheni erano destinati a non capirsi, e l’inflessibile austerità del principe non poteva andare a genio né ai notabili locali, né al popolo minuto. I primi, nonostante la mediazione di Libanio, intravedevano nella condotta di Giuliano i tratti di una nuova autocrazia – poco importa se ammantata di neoplatonismo –, del tutto disinteressata a mediare con le élites cittadine gelose della propria autonomia, mentre il secondo non riusciva a comprendere perché mai l’imperatore si sottraesse ai tradizionali obblighi di munificenza, cercando di convertire all’ascetismo i cittadini di una polis rinomata nel mondo antico per i suoi giochi e le sue feste. Una tragica incomprensione, dunque, testimoniata dalla disperata, aggressiva satira del Misopogon, L’odiatore della barba, esempio unico di invettiva di un governante contro i costumi dei propri sudditi.
Deluso dalle difficoltà incontrate in politica interna, il Giuliano della fatale campagna persiana sembra muoversi ormai sotto un cielo indifferente se non ostile, come rivelano i presagi che precedono la sua caduta sul campo a Maranga, nel deserto mesopotamico, il 22 giugno del 363. È l’aspro conflitto relativo alla sua eredità politica e ideale a spiegare il precoce proliferare di diverse versioni sulla sua morte, secondo una tendenza eroicizzante di matrice pagana e una opposta, polemica e denigratoria, da parte cristiana, che l’ha inchiodato per secoli all’etichetta di ‘Apostata’. Ma la scomparsa di Giuliano non è bastata a placare la battaglia intorno alla sua figura, ben tratteggiata da Marcone nell’ultimo capitolo del libro: così, se le agiografie bizantine ne fanno spesso una sorta di incarnazione dell’Anticristo, a partire dall’Umanesimo egli è progressivamente divenuto l’idealtipo dell’imperatore illuminato, capace di affascinare fra gli altri Lorenzo il Magnifico e Montaigne, Voltaire e Henrik Ibsen.
Venti mesi in tutto, si diceva, è durato il regno di Giuliano; poco più di un soffio se paragonato agli oltre milleduecento anni di vita di Roma. Eppure, come scrive Prisco a Libanio nel Giuliano di Gore Vidal, uno dei più importanti romanzi storici del Novecento: «A volte ho l’impressione che la storia dell’impero romano sia un’unica, interminabile ripetizione delle stesse facce. In fondo si assomigliano tutti, questi uomini d’azione: solo Giuliano è stato diverso».