Roberto Longhi e Giuliano Briganti nel 1962, da un album di Luisa Laureati

 

Sono usciti in coppia per le edizioni di Rosellina Archinto due piccoli libri dedicati al rapporto fra Giuliano Briganti e Roberto Longhi: Giuliano Briganti, Roberto Longhi, a cura di Giovanni Agosti (pp. 162, euro 18,00) e Giuliano Briganti, Roberto Longhi, Incontri Corrispondenza 1939-1969, a cura di Laura Laureati (pp. 200, euro 18,00). Il primo raccoglie i saggi scritti da Briganti su Longhi, il secondo le lettere fra i due. Benché Briganti non avesse studiato all’università con Longhi, era suo allievo stretto, perché il professore era amico del padre, Aldo Briganti, storico dell’arte e, di professione, antiquario. Quindi nelle lettere Longhi gli dà del tu, lo chiama per nome, lo tratta con affettuosa ironia, lo nomina «Giulianino» nelle corrispondenze con altri, citate nelle lunghe e accuratissime note di Laura Laureati. Briganti invece, sino alla fine (l’ultima lettera è datata, dubitativamente, all’estate del 1967), gli dà del lei e gli si rivolge ancora come «Caro Professore».
C’è soggezione, insomma, un tratto che si legge in trasparenza anche nella raccolta degli scritti: finché Longhi è vivo, Briganti ne parla come si parla di un monumento lontano, benché rispettatissimo, ma è inibito e non si lascia andare. Dopo la morte del maestro è tutta un’altra storia: l’emozione si scioglie e Briganti regala alla memoria del professore pagine colme di affettività, nelle quali, con sottile intelligenza critica, delinea il posto occupato da Longhi nella storia dell’arte del Novecento. Briganti si piglia anche la libertà di fare apparire il professore, alto e con la sigaretta pendente fra le labbra, in uno scritto d’invenzione del 1981, pubblicato in coda al volume dei saggi.
Il punto principale del pensiero di Briganti su Longhi, più volte ripetuto negli articoli del libro, si può riassumere nel modo seguente: Briganti ritiene che la grandezza di Longhi non consista tanto nella sua abilità di conoscitore e di attribuzionista. L’acutezza dell’occhio è condizione necessaria, ma non sufficiente, a fare lo storico dell’arte: per tramite di essa è possibile svelare la situazione «esistenziale» dell’opera d’arte, il modo in cui essa è «rivelata dalle conoscenze, dalla penetrazione affettiva». Il paziente lavoro di conoscitore condotto da Longhi andava quindi molto al di là di una pratica di natura meramente inventariale ed era dotato di un forte spessore emotivo. Quanto alla qualità letteraria della scrittura di Longhi, Briganti si limita, in fondo, a condividere e riportare quanto il maestro stesso scriveva nel 1950, nel testo inaugurale di «Paragone», e cioè che «non esiste una buona critica che non si esprima in altrettanta buona letteratura». Briganti, a corollario, ricorda anche quanto Cesare Garboli affermava circa «la reciprocità fra l’immagine figurativa presa in esame e la scrittura longhiana», dovuta al legame «genetico» fra l’opera d’arte e la parola del critico. La prosa del professore, del resto, era talmente idiosincratica che non si prestava a essere trasmessa tal quale ad allievi e allieve, se non rischiando un «irritante manierismo». E Briganti, dal canto suo, aveva elaborato nel tempo una scrittura distesa e acuta, armoniosa e affabile, tutta diversa da quella del maestro.
Perspicuità dell’occhio e bella scrittura non bastano, quindi, a fare il grande storico dell’arte, che Longhi fu proprio perché capace di mettere quelle doti al servizio di un obiettivo più difficile e complesso, quello di restituire con esattezza il «valore» (o il «disvalore») dell’opera. Per Longhi è valore «quella cultura che vive nel progressivo e dinamico sviluppo della storia, e “disvalore” quella che al di fuori della storia si pone». Di qui discendono alcune conseguenze: l’idea di un ruolo attivo dell’opera d’arte, che «non riflette, ma esprime», la predilezione per il realismo e l’impazienza nei riguardi dei momenti nei quali l’arte si era posta «fuori dal flusso vitale della storia» – l’arte bizantina o neoclassica, ad esempio – o nei quali l’immaginazione aveva avuto il sopravvento, per esempio il Romanticismo. Briganti, va ricordato, è l’autore de I pittori dell’immaginario, il libro dedicato alla scoperta dell’inconscio nella pittura europea della seconda metà del Settecento, ed era ben cosciente che il maestro non avrebbe gradito i suoi interessi in questa direzione.
Sulla base della posizione da essa occupata nella storia (e non mediante la semplice acutezza dell’occhio) Longhi era in grado di capire con sicurezza «il preciso incastro» dove l’opera era nata: 1280, 1520 o 1610. Era una capacità derivata dall’esperienza visiva diretta della realtà materiale dell’opera, che per Longhi è unitaria, esige una visione sinottica e non condivide con il linguaggio verbale la «scomponibilità» in unità distinte (parole o fonemi).
Nel corso della prima fase della sua vita di storico dell’arte, fino alla scomparsa di Longhi, Briganti collabora strettamente con lui: gli articoli raccolti tornano continuamente sulle giornate trascorse nello studio rialzato nella casa di via Fortini n. 30, dove, con pochi altri adepti, lavora accanto a un maestro che – osserva Agosti – «ne ha sorvegliato la formazione, lo ha visto crescere (…), lo ha stimolato, incalzato, forse anche oppresso».
Le lettere, non molte, costituiscono il deposito, per forza di cose rapsodico, di un rapporto le cui maglie erano di gran lunga più fitte, ma tessute soprattutto nella relazione diretta, a tu per tu. Al di là dei complessi aspetti psicologici di cui si diceva sopra, il carteggio è soprattutto interessante perché dà modo di seguire alcuni progetti condivisi: ad esempio, le mire longhiane sulla rivista «Emporium», alla fine degli anni quaranta. Sotto il controllo di Longhi, Briganti sarebbe dovuto diventare redattore della rivista e trasferirsi a Bergamo, ma il progetto, probabilmente con un sospiro di sollievo da parte del giovane Giuliano (nota Laura Laureati), naufragò. Nel 1950 nacque invece «Paragone», di cui Briganti fu sin dall’inizio redattore, con Francesco Arcangeli, Ferdinando Bologna e Federico Zeri, e per il quale Longhi gli chiedeva continuamente collaborazione e articoli, vista la cadenza bimestrale dei numeri dedicati all’arte. Briganti lavora duramente alla fabbricazione della rivista: corregge, traduce, procura fotografie (di cui Longhi e Briganti erano entrambi ghiottissimi), suggerisce autori…
L’altro aspetto notevole delle lettere è che esse accompagnano lo sviluppo degli interessi di Briganti fra gli anni cinquanta e i Sessanta. Fin quasi dall’inizio, ad esempio, si può seguire la storia del libro su Pietro da Cortona, di cui alcune parti o esiti collaterali vengono pubblicati negli anni cinquanta su «Paragone», ma che procede con «lentezza esasperante», benché Briganti dica spesso di essere quasi alla fine delle sue fatiche. Tra il pie’ veloce e la tartaruga vince sempre la seconda, finché nel 1962 il volume, dopo un lavoro quindicennale, vede la luce, da Sansoni, come Pietro da Cortona o della pittura barocca. In una lettera (del 1956 o 1957) Briganti ne delinea a Longhi gli obiettivi: «Pietro da Cortona è un filo conduttore che mi ha fornito l’occasione di prelevare come un campione da vari strati, non certo tutti, della cultura artistica seicentesca».
Nelle lettere, inoltre, si trovano sparse una quantità di note interessanti, tante proposte di attribuzione, dubbi, tracce lasciate dalle disavventure accademiche e altre numerosissime briciole quotidiane legate al mestiere: fotografie ricevute, inviate o ancora da fare, resoconti dei viaggi compiuti per visitare mostre o vedere quadri da acquistare.
Le lettere sono quindi il sedimento di un rapporto decisivo fra uno dei grandi maestri della storia dell’arte del Novecento e un suo allievo prediletto, magari irregolare, ma proprio per questo capace di porre alla disciplina domande originali su terreni già battuti dal maestro e di esplorarne di nuovi.