Maria è nata e cresciuta nelle campagne piemontesi, in una cascina, abituata insieme ai tanti fratelli e sorelle a lavorare la terra, occuparsi delle vacche, a osservare senza chiedere nulla il ventre della madre gonfiarsi e poi la comparsa di un nuovo neonato e la rabbia del babbo esplodere, tutte le sere, senza una vera ragione. Nel romanzo d’esordio di Giuliana Zeppegno La luce che pioveva (L’orma, pp. 168, euro 18) Maria è la madre dell’autrice, è la voce che racconta la sua storia, quella della famiglia d’origine e poi del nucleo creato col marito Giorgio, in cui sono nati anche la scrittrice e il suo gemello Dario.

IL RAPPORTO MADRE-FIGLIA è molto indagato nella letteratura italiana. Il libro di Zeppegno si contraddistingue per la modalità di narrazione scelta: il continuo contrappunto di tracce di conversazione: «dici», «ti sembra», che danno una nota di vividezza al racconto, connotato come un costante dialogo. Con questa operazione maieutica, Maria racconta alla figlia, come alle lettrici e ai lettori, la fatica della vita contadina, la scalata sociale con il lavoro da tecnica di laboratorio e poi la baby pensione. All’interno di queste tappe lavorative, emerge il rapporto coi genitori, caratterizzato dalla totale assenza di affettività e coi fratelli e le sorelle a cui è dedicato un capitoletto frammentato: «dei tuoi fratelli e delle tue sorelle hai qualche ricordo staccato. Istantanee disordinate, slegate l’una dall’altra».

Il romanzo descrive una parabola di vita che si è dispiegata nel ‘900 e che porta i segni degli stravolgimenti propri del XX secolo: Maria è nata in una cascina, senza bagno e si è ritrovata a vivere in città, ad avere uno stipendio, una casa di proprietà, a guidare l’automobile… Se è vero, come si legge nella premessa che: «ogni vita è stupefacente», lo è in particolar modo per la generazione nata in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, che ha vissuto ogni giorno la riprova, rivelatasi poi illusoria, che il futuro è un costante progresso materiale.

ZEPPEGNO RACCONTA anche come l’ordinarietà della vita di sua madre Maria si connoti per forme di eroismo della vita quotidiana, come le chiamava Nietzsche. La ragazzina di cui si approfittava il garzone nella stalla diventa la donna che lavora nel laboratorio dell’ospedale, la moglie di un uomo che ha problemi psichiatrici, la vittima sacrificale della suocera che la aspetta la sera, con degli agguati, in garage. Quanta forza è necessaria per vivere, anche l’esistenza più normale? Sembra domandarsi l’autrice, incalzando la madre a raccontare la propria storia. Quanto amore serve per non dimenticare ciò che i nostri genitori hanno fatto per noi?

Il libro pare sorgere da un senso di riconoscenza profondo che Zeppegno vuole testimoniare nei confronti della madre, che la ascoltava paziente, stirando, raccontare tutti i suoi noiosi turbamenti adolescenziali, ed è dedicato al padre. È un dono insomma alla dedizione irredimibile che alcuni genitori hanno dimostrato nei confronti dei figli, cioè a una generazione di persone più colte, ma spesso incapaci di tenere insieme una casa, una famiglia, un uomo e una donna.