«Il teatro è meraviglioso perché non separa l’analisi intellettuale da quella emotiva» spiega Giuliana Musso. Una questione non di poco conto soprattutto quando abbiamo a che fare con temi difficili da affrontare come quelli di Dentro. Una storia vera, se volete, lo spettacolo che la drammaturga, regista e attrice porta in scena al Teatro India di Roma fino a questa domenica, poi a gennaio al Teatro Carcano di Milano e in altre città.

«QUESTO TESTO è nato da una coincidenza: una proposta da parte della Biennale Teatro, l’ultima diretta da Antonio Latella, di lavorare sul tema della censura e contemporaneamente una donna che mi cerca per raccontarmi la storia di un sospetto abuso da parte di un padre su una figlia. Mi sono messa al servizio, temendo di non riuscirci perché il tema è veramente intoccabile» racconta Musso. Al suo fianco, sul palco, Maria Ariis interpreta una madre che tenta di parlare. Giuliana ha deciso invece stavolta di eliminare l’intermediario, il personaggio di finzione, e di presentarsi come se stessa. «È una trappola drammaturgica che serve a porre l’accento sul vero tema, cioè a cosa siamo disposti a credere come vero», questione sollevata anche dal sottotitolo dello spettacolo, con il suo rimando pirandelliano. «I protagonisti non sono le persone direttamente coinvolte nella violenza ma noi, ovvero tutti quelli che sono nei pressi di queste storie: gli assistenti sociali, gli psicologi, i parenti, gli altri. Siamo di fronte a delle vittime che non possono parlare perché il dolore è troppo forte. Cosa ne facciamo di questo vissuto? Forse alla fine il tabù non è sulla violenza ma sul dolore, un’ipotesi su cui ragiono nello spettacolo». Alla violenza infatti corrisponde sempre una difficoltà a parlare apertamente, che nel caso dell’incesto si carica del peso di emozioni potenti come la vergogna.

Questioni che Musso ha rintracciato in fatti antichi, alla base della nostra convivenza sociale: «La persona che mi ha aiutato a comprendere è stato un magistrato: col suo pragmatismo mi ha spiegato che il segreto ha un contenuto determinato e un fine positivo di protezione, di qualcosa o qualcuno. Il tabù invece è ciò che non vogliamo sapere, non ha quindi un contenuto preciso. E non lo vogliamo sapere per proteggere delle convinzioni aprioristiche di cui abbiamo assoluto bisogno per sopravvivere in un sistema sociale». Un tema questo che si espande al di là dell’incesto e della violenza in famiglia. Parliamo con Musso di un suo spettacolo di alcuni anni fa, Mio eroe, incentrato sulle madri dei soldati italiani morti in Afghanistan. «Nessun altro può parlare della guerra secondo me, qualsiasi discorso che non provenga da una zona di lacrime e pietà profonda, per me è inattendibile. Anche qui c’è un tabù, che ha sempre a che fare col nostro bisogno di salvare i padri. Motivo per cui continuiamo ad usare la violenza di sistema come mezzo di “giustizia” e ordine. Credo che il meccanismo che ci sta portando alla distruzione abbia a che fare con questa matrice patriarcale che ancora abita i nostri pensieri e le relazioni. Il teatro, e non solo, può proporre un altro linguaggio, ma c’è tanta resistenza: viene facilmente degradato come sentimentalista, perché riporta l’attenzione sull’organismo vivente».