«Non parteciperò più alle fastose cerimonie officiate da nostro padre in onore di quel dio che si è manifestato a noi sotto l’aspetto di una lucida e nera pietra caduta dal cielo (…) Ho indossato la tunica bianca legata con il nodo d’Ercole che questa notte Severo scioglierà (…) Non ha requie, ma questa volta, per fortuna, la meta è l’Oriente! Torno a casa! Ti rivedrò!». Sono queste alcune delle parole che Francesca Ghedini fa pronunciare a Giulia Domna in un nostalgico carteggio con la sorella Mesa. Ma non è attraverso una biografia in forma epistolare che la studiosa emerita di Archeologia Classica dell’Università di Padova ha scelto di raccontare l’avventurosa e al contempo tragica esistenza di una figura chiave dell’impero romano tra II e III secolo d.C. Né ha voluto dar seguito al pur grazioso abbozzo di diario pensato sul modello di Io, Agrippina di Andrea Carandini. Nella premessa al volume Giulia Domna Una siriaca sul trono dei Cesari (Carocci editore «Frecce», pp. 268, € 24,00) Ghedini confessa di aver rinunciato a intraprendere la via letteraria intimidita dallo schiacciante confronto con Memorie di Adriano, libro cult di Marguerite Yourcenar.
D’altra parte, la vita di Domna somiglia naturalmente a un romanzo e l’autrice rivela di esserne rimasta affascinata fin dagli esordi del suo percorso accademico, quando – analizzando una ricca documentazione archeologica, epigrafica, storica e letteraria – ne ricostruì le vicende in Giulia Domna tra Oriente e Occidente. A trentasei anni di distanza, il saggio pubblicato da Carocci rappresenta non solo un aggiornamento di quell’«opera prima» edita da L’Erma di Bretschneider ma anche, come rivendicato da Ghedini, un atto di omaggio a una donna che seppe guadagnarsi l’ammirazione dei contemporanei. Malgrado dichiari senza pudore la sua incapacità di calarsi completamente nel personaggio, «di sognare come lei, di divenire Giulia Domna», l’autrice non riesce ad arginare il desiderio di scandagliarne il cuore.
Il destino della futura madre e moglie di imperatori affiora negli anni settanta del II secolo dalle acque dell’Oronte e scintilla sugli alti tetti di Emesa. In questo snodo commerciale della provincia di Siria abitato da genti arabe avvezze alla cultura greca, suo padre Giulio Bassiano è il gran sacerdote del culto solare. Intorno all’idolo aniconico, scuro come il mistero che lo avvolge, tra cerimonie «lisergiche» e segni divini, a Domna (dall’aramaico Dumaya , che richiama il colore nero mentre nel mondo romano Domna evocava piuttosto il termine domina) venne predetta una sorte regale. Del vaticinio apprese durante un soggiorno nella città carovaniera il legato della IV legione Scitica, l’africano Settimio Severo, che dalle religioni astrali era attratto. L’oroscopo emeseno gli tornò alla mente quando, appena nominato governatore della Gallia, rimase vedovo. Inviò allora alla giovane siriana l’anulus sponsalis: le nozze si celebrarono a Lugdunum, l’odierna Lione, non prima del 185 ma la profezia si compì nel 193, anno in cui Didio Giuliano venne trucidato e Settimio Severo, già investito del potere dalle truppe pannoniche, fu proclamato imperatore unico dal Senato romano.
Basata su una rigorosa lettura delle fonti – Cassio Dione, Erodiano, l’Historia Augusta ma anche l’Epitome e Filostrato – la biografia ha un ritmo appassionato e avvincente. L’affezione per la protagonista si manifesta già dal primo capitolo, nel quale l’autrice si sforza di immaginare il viaggio della nubenda dalla terra natìa al punto in cui la Saona abbraccia il Rodano, per incontrare uno sconosciuto di vent’anni più vecchio. Contrariamente agli asettici resoconti dei manuali, più propensi a mettere in evidenza gli aspetti virili della Storia, il lettore ha qui l’opportunità di seguire l’evoluzione di una perduta ma obbediente anima strappata all’Oriente in solida mater castrorum. Dopo aver dato alla luce due figli (Settimio Bassiano – che sarà poi noto col nomignolo di Caracalla – nel 186, Settimio Geta nel 189), Domna sostiene le campagne militari di Severo dividendosi, secondo un’abile strategia, tra l’Urbe e gli accampamenti. La parabola ascendente e poi drammaticamente calante di Giulia Domna è narrata dalla studiosa con dovizia di particolari, tutti quelli che è possibile desumere dalle fonti. Quando queste tacciono, Ghedini prova a interrogarsi sui sentimenti e sulle azioni dell’Augusta, consapevole di non poter offrire ipotesi certe ma accompagnando sempre le sue riflessioni con una cura quasi empatica.
È il caso dei paragrafi in cui viene sviscerato il difficile rapporto tra Domna e l’influente prefetto del pretorio Gaio Fulvio Plauziano – anch’esso, come Severo, proveniente da Leptis Magna –, inimicizia che provocò un allontanamento fra i due coniugi. Domna, accusata di immoralità (l’Historia Augusta le imputò un rapporto incestuoso con il figlio primogenito) vide il suo potere progressivamente ridimensionato, dovendo sopportare persino il matrimonio fra Caracalla e Plautilla, figlia dell’ambizioso prefetto. Ma né l’uccisione di quest’ultimo nel 205 né, poco più tardi, la morte di Severo a Eburacum, in Britannia, le restituirono la pace che tuttavia cercava rifugiandosi nella filosofia e circondandosi di intellettuali. Messa a dura prova dalle lotte dei discendenti per la successione al soglio imperiale, Giulia Domna si trasformò da mater Augustorum in mater dolorosa. Nel 211 Geta fu assassinato e Ghedini immagina Domna «mentre con le vesti insanguinate stringe fra le braccia il corpo esanime di colui che lei stessa aveva generato, mandato a morte dal suo stesso fratello». Alle pagine ugualmente impregnate di pathos che descrivono il momento in cui nel 217, ad Antiochia, viene consegnata all’Augusta l’urna con le ceneri di Caracalla – il figlio con cui aveva regnato e al quale aveva perdonato follia e nefandezze –, fanno eco i passaggi del libro dedicati alle caratteristiche più rilevanti della sua personalità come la forza, la determinazione e il mecenatismo. Qualità che valsero a Domna molti onori e, tra i diversi epiteti, quello di Atena-Minerva.
Anche quando, esausta, si lasciò morire, la sua ombra non scomparve dalla scena politica di Roma. Grazie all’intraprendenza di sua sorella Mesa, nel 218, Vario Avito Bassiano – figlio di Soemia – viene proclamato Augusto con il nome di Elagabalo e trascina nel caput mundi la pietra nera di Emesa. La dinastia originata da Giulia Domna si estinguerà nel sangue ma saranno altre pietre, questa volta candide, a perpetuare la gloria dell’emblematica siriaca. L’ultima parte del volume prende in esame monete, gemme, ritratti e rilievi in cui l’immagine dell’Augusta, con l’inconfondibile acconciatura «a bande», contribuisce a diffondere l’eredità cosmopolita dei Severi. Se qui lo scopo di Ghedini è indagare, attraverso monumenti e reperti archeologici, il fenomeno della propaganda imperiale, nondimeno la studiosa offre al «suo» personaggio un’occasione di rivincita. Presente nel pantheon delle donne più potenti dell’antichità, Domna non ha avuto, nei secoli, la medesima fortuna di sovrane esotiche quali Cleopatra e Zenobia. Di recente, lo scrittore spagnolo Santiago Posteguillo ne ha riproposto le gesta in una saga di successo, edita in Italia da Piemme. Non è escluso che un giorno anche Ghedini ritrovi il filo perduto tra il peristilio e il giardino dell’infanzia di Domna, là dove «la fontana gorgogliava, i fiori bianchi (…) spargevano un profumo intenso, struggente» e la fanciulla promessa in sposa al rude soldato ne strofinava i petali sulla pelle per portare con sé il profumo d’Oriente.