La Commedia dantesca cadde, incredibilmente, in un secolare oblio a partire dall’età di Pietro Bembo, e fu riscoperta pienamente solo dai grandi poeti del Novecento. Fra la metà del secolo precedente e il fatidico anniversario del 1921 Francesco De Sanctis e Benedetto Croce di fatto ritagliarono nel poema qualche «figurina» di seducente teatralità (Paolo e Francesca, il conte Ugolino, Farinata degli Uberti) e isolarono degli squarci lirici, condannando la struttura del poema sacro: troppo filosofico per essere vera poesia e troppo poetico per essere vera filosofia. Nel saggio del 1921 Croce scriveva letteralmente che «il cammino più corto e più proprio per leggere la Commedia sarà passare in rassegna le principali poesie e gruppi di poesie comprese in ciascuna delle cantiche». L’idea di fondo è di destrutturare il poema scardinandone la grandiosa impalcatura, vista come impedimento a cogliere la natura intimamente lirica «compresa» nella forma narrativa. Ma già l’anno prima Thomas S. Eliot aveva proclamato con forza che nella Commedia «la filosofia è essenziale alla struttura della poesia e la struttura è essenziale alla bellezza poetica delle parti».
Prima dei filologi e dei filosofi furono dunque i poeti a riconoscere come l’altezza d’ingegno di Dante abbia concepito quel libro cosmico nella sua struttura molteplice, intimamente connessa al contenuto, e come il pensiero poetante dantesco sia solidale con l’organizzazione del testo. Pascoli da noi, e più tardi, nel mondo, Pound e Mandel’štam, Eliot e Borges, ci hanno restituito la Commedia nella complessità in cui fu pensata e composta: libro dell’universo e della fragilità umana, della storia sterminata e della vita quotidiana di Ognuno di Noi, l’Everyman che Dante incarna, secondo una geniale formula poundiana.
Pullula Dante «petroso» nell’Ungaretti di Sono una creatura, nel Montale dei Mottetti. E più tardi Giorgio Caproni e Andrea Zanzotto ripensano profondamente le Rime e la Commedia, dialogando nei loro versi con quelli danteschi. Nel passaggio fra gli anni ottanta e i novanta tre fra i nostri più alti poeti, diversissimi fra loro, Edoardo Sanguineti, Mario Luzi, Giovanni Giudici, colsero la doppia sfida lanciata da Federico Tiezzi, di «riscrivere» l’intera Commedia per il teatro. Andate in scena con la regia di Tiezzi al Fabbricone di Prato, le tre drammaturgie vennero pubblicate da Costa & Nolan fra 1989 e 1991 (Sanguineti, Commedia dell’Inferno. Un travestimento dantesco; Luzi, Il Purgatorio. La notte lava la mente; Giudici, Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d’esta stella). Ma la memoria di quei travestimenti teatrali è quasi spenta, e i testi non sono mai più stati ripresi: tanto più prezioso è dunque il libro, pieno di novità testuali e di intelligenza critica, con cui Riccardo Corcione propone ora presso la piccola editrice milanese Ledizioni la terza «Cantica»: Giovanni Giudici, Il Paradiso (pp. 193, € 18,00).
Oltre a ristampare Perché mi vinse il lume d’esta stella, Corcione offre in un’appendice molto innovativa «Gli appunti di lavoro per il Paradiso», ossia le principali annotazioni relative al testo tratte da due delle molte agende inedite di Giudici che lo stesso studioso ha trascritto e studiato (altre ne ha pubblicate nel Carteggio Fortini-Giudici da lui curato per Olschki nel 2018). Corcione ricostruisce in questo modo un vero e proprio «quaderno di lavoro» permettendo al lettore di seguire giorno per giorno l’elaborazione della drammaturgia, cogliendo non solo il progressivo crescere del progetto nella mente dell’autore, ma soprattutto il suo contemporaneo «rimeditare temi che attraversano la propria opera precedente (…) e per individuare immagini e concetti che troveranno un’eco significativa nei versi degli anni ’90 ».
Grazie alla documentata, sottile lettura di Corcione la drammaturgia dantesca assume un ruolo di grande rilievo nella storia della poesia di Giudici: «questo dialogo interiore con la terza cantica, questa sfida intellettuale e poetica sul senso dell’aldilà, questo andirivieni continuo fra una dimensione privata e una collettivo-religiosa», che le agende inedite consentono di seguire giorno dopo giorno, diventano un epicentro nella metamorfosi dell’ideologia e della poetica. Il braccio di ferro con Dante è un’esperienza faticosa, anche frustrante per la necessità di concentrazione e sublimazione della mente: che è poi l’intimo senso dell’ascensione paradisiaca.
In questo modo Perché mi vinse il lume d’esta stella si può interpretare in primo luogo come «una sfida tutta mentale e interiore», un raffinato e sofferto esercizio spirituale (non si dimentichi che Giudici tradusse e commentò Ignazio di Loyola). Ed è poi anche l’arduo percorso di una revisione, in anni cruciali per il poeta e per il mondo, del rapporto fra cattolicesimo e comunismo. Le lettere paoline e le Confessioni di Agostino, Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino, i Cantos di Pound e il Processo di Kafka convivono nella mente di Giudici mentre sceglie di «proiettarsi in prima persona a fianco di Dante» per cogliere e rappresentare «le tragedie del mondo così in contrasto con la condizione beata». E non a caso questi autori intervengono trasformandosi «da fonte a personaggio», con il loro pensiero e con le loro parole, accanto all’«Auctor» e al «Viator», a Bernardo e a Cacciaguida, a Cunizza e a Piccarda, al «Chierico» e al «Letterato moderno», nella «satura drammatica» con cui Giudici ‘riscrive’ Dante. Un’allusione apocalittica si scopre anche nel richiamo alla dedica della Waste Land con cui la drammaturgia si chiude, quando il «Coro di voci chiare» chiede alla Sibilla «Che cosa vorresti?», e lei risponde: «Morire, morire…».
È la prospettiva escatologica a offrire un baluardo di fronte alle crisi delle idee e della politica spalancata con il 1989: la «speranza in un uomo nuovo», in un «popolo di luce» in cui (dice Giudici) «una persona è miliardi». In questa allegoria prende figura «quella tensione profonda che dalla vita mortale si leva alla vita dell’aldilà, un desiderio, personale e collettivo, che Giudici stesso condensa nel verso appuntato al 21 agosto dell’Agenda 1990: “mio sospirato ribaltarmi”». La resurrezione, commenta Corcione, «simboleggia la forma più viva del “rovesciamento” dei “corpi” nel popolo di luce». Due anni più tardi (1993), in Quanto spera di campare Giovanni, il poeta dirà in chiaro che «il Paradiso sta / nella sua aspettazione / ché un pozzo senza fondo è il possesso / anche se non negabile sia la gioia dei corpi / e l’illusione che mai non si muoia / ci tenga in piedi, incalzi / sete di soldi, politica e storia / solo futuro è il ponte infinito».
Il percorso teatrale di Perché mi vinse il lume d’esta stella è triplice: «un viaggio, attraverso il regno dei beati, un sogno, fatto di spettri della mente, e una fiamma che divampa e si consuma, quella della lingua poetica». Nell’Agenda dell’agosto 1990 si coglie limpidamente l’aspetto apocalittico e messianico del sogno d’una «“lingua della luce” (…) che contiene tutte le lingue» ed è «paragonabile a una “lingua straniera” incomprensibile a orecchio umano». L’aspirazione di Giudici, conclude finemente Corcione, è «“vivere la mia morte” per cercare quell’alterità impossibile e fondamentale: è questa l’unica “ipotesi di rovesciamento” per oltrepassare la “limitata prospettiva delle nostre singole esistenze».
Con tenerezza si pensa allora alla donna antistilnovistica che vent’anni prima, in O beatrice, punto d’origine di un lungo dialogo di Giudici con Dante, era stata ironicamente diminuita in «minuscola» fin dal titolo: «beatrice – costruttrice / della mia beatitudine infelice (…) beatrice – dal verbo beare nome comune singolare».