Periodicamente, soprattutto in concomitanza con decisioni giudiziarie sgradite a questo o a quel centro di potere, si riapre il tormentone dei «magistrati in politica». Oggi lo spunto è duplice: da un lato, la corsa di Emiliano (magistrato in aspettativa dalle esternazioni spesso sopra le righe) alla segreteria del Pd; dall’altro, il voto del senato sulla incandidabilità sopravvenuta di Minzolini a seguito di una condanna confermata dalla Cassazione ma pronunciata in appello da un collegio di cui faceva parte il giudice Sinisi (sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema). Qualunque sia l’occasione, il pensiero unico non ha dubbi: tra le cause principali della caduta di credibilità della giustizia c’è l’impropria «politicizzazione» di giudici e pm. Alla enunciazione del dogma si accompagna, per rafforzarlo, l’evocazione di un’epoca felice in cui i magistrati erano apolitici e, per questo, autorevoli e circondati da generale consenso.

Oggi i prestiti di magistrati alla politica attiva sono, nel nostro paese, numericamente esigui; se si guarda alla storia dei 150 anni dello Stato unitario non sono mai stati così pochi. Siedono in parlamento – essendo, ovviamente, in aspettativa – appena una decina di magistrati e i giudici o i pm presidenti di regione, sindaci o assessori si contano sulle dita delle mani. Tutt’altra era la situazione nel bel tempo antico. In epoca liberale la magistratura era un’articolazione della classe politica di governo tout court: la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa e spesso di estrazione direttamente politica e frequenti erano gli interscambi tra ordine giudiziario, parlamento e governo, al punto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva dai ranghi della magistratura. La situazione restò inalterata nel ventennio fascista (con l’8% dei senatori reclutato tra le fila della magistratura). Né tale colleganza attiva venne meno con la caduta del regime, se è vero che a reggere il dicastero della giustizia nel primo governo Badoglio furono chiamati in sequenza due alti magistrati e che, dalla Costituente fino alle ultime legislature, numerosi sono stati i magistrati transitati in parlamento. E tutto ciò senza polemiche di sorta per oltre cent’anni.
Cos’è cambiato, dunque, negli ultimi decenni, in cui pure, a differenza del passato, sono stati introdotti impegnativi limiti territoriali (e non solo) sia per le candidature politiche dei magistrati che per il rientro in ruolo dopo il mandato parlamentare o amministrativo?

I cambiamenti sono stati fondamentalmente due. Il primo risale agli anni Settanta, quando l’omogeneità del potere cominciò a incrinarsi e, con grave scandalo dei benpensanti, alcuni magistrati si candidarono alle elezioni con partiti di opposizione (anziché con i soli partiti moderati, come avvenuto senza eccezioni dall’unità d’Italia fino ad allora). Il secondo – più recente – coincide con l’avvento del sistema maggioritario e la progressiva trasformazione della politica in guerra di potere senza esclusione di colpi (in cui è impossibile mantenere equilibrio e serenità di giudizio).
Quest’ultimo cambiamento, in particolare, ha trasformato il contesto e provocato un mutamento degli orientamenti di ampi settori progressisti della magistratura, tradizionalmente favorevole alla partecipazione dei magistrati alla vita politica. Non per caso, ma in ossequio al principio enunciato – come ricordava Marco Ramat – fin dalla nascita di Magistratura democratica, nel lontano 1964, secondo cui esiste una «fondamentale distinzione tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi». Detto in altri termini: la partecipazione al dibattito ideale e culturale, anche in parlamento, è un’attività positiva e potenzialmente utile per la società che non scalfisce la terzietà del giudice, mentre l’essere parte di un conflitto politico aspro e senza esclusione di colpi attenua quella terzietà in termini di apparenza e anche di sostanza.
L’analisi della vicenda storica del paese impone, dunque, conclusioni meno drastiche di quelle oggi dominanti. Provo a sintetizzarle. Promuovere, anche attraverso la critica serrata di comportamenti specifici, un costume di estrema prudenza dei magistrati nel transito dalle aule di giustizia alle istituzioni rappresentative (e di altrettanta prudenza delle forze politiche nel proporre transiti siffatti) è assolutamente necessario. Tutt’altra cosa è la introduzione nel sistema di divieti legislativi drastici e rigidi che avrebbero il solo effetto di incrinare il pluralismo ideale della magistratura contribuendo a riportarla, senza eccezioni, nell’ambito del potere (a cui, come noto, si accede senza bisogno di elezioni).