Le Sezioni unite della Cassazione, risolvendo un contrasto interpretativo fra i giudici, hanno stabilito nell’udienza di giovedì scorso che le pene in corso di esecuzione per fatti relative alle “droghe leggere”, irrogate sulla base della famigerata legge Fini-Giovanardi (che prevedeva pene da 6 a 20 anni di reclusione), dichiarata incostituzionale nel febbraio dell’anno scorso, devono essere rideterminate sulla base della ripristinata legge precedente, che prevede pene più miti (da 2 a 6 anni).

Bene. La giurisdizione ha fatto il suo dovere; sia pure con i tempi propri della nostra giustizia, ha stabilito che la galera illegittima va rimossa, perché questo vuole la legalità costituzionale.

Chi non ha fatto il suo dovere è invece il legislatore, che, mentre i giudici risolvevano i loro prevedibili contrasti, è rimasto inerte e ha consentito che i condannati continuassero a scontare la loro pena illegittima. E continueranno ancora a scontarla, perché la meritoria decisione della Cassazione non ha effetti immediati, generalizzati e automatici. Sarà pur sempre necessario, per riavere la libertà, che il condannato (o il suo difensore, se ce l’ha) si attivi per aprire e portare a compimento la “pratica” e sempre che il giudice cui è affidata non voglia “ribellarsi” – com’è nei suoi poteri – alla decisione del vertice giudiziario.

Perciò un anno fa, all’indomani del verdetto della Consulta, sarebbe stato necessario un intervento urgente del legislatore che disponesse, con effetti generali immediati per tutti i condannati, l’obbligo dei giudici di provvedere d’ufficio a rideterminare le pene in corso di esecuzione, per riportarle ai ripristinati parametri legali della legge precedente.

Questo è quello che avrebbe richiesto, e continua a richiedere, un effettivo rispetto della libertà personale. E invece l’inerzia della politica ha condannato, e continua a condannare, migliaia di detenuti delle nostre affollate galere a scontare pene costituzionalmente illegittime.
In compenso quella stessa politica ha approvato una legge – sulla responsabilità civile dei magistrati – che solo la demagogia e il garantismo confuso, anche di certa sinistra, può presentare come efficace presidio di libertà e di garanzia dei diritti dei cittadini, e soprattutto di coloro che più avrebbero bisogno della tutela giudiziaria.

La vicenda di Enzo Tortora, strumentalmente evocata per propagandare le virtù di questo intervento legislativo, è invece la miglior riprova della sua inutilità: se all’epoca fosse stata in vigore, la decantata legge non avrebbe né risparmiato l’ingiusta galera preventiva né assicurato un risarcimento alla vittima più emblematica della nostra malagiustizia.

La verità è che questa legge – al di là delle semplificazioni demagogiche che la rendono popolare – non ha alcuna attitudine né a mettere i cittadini al riparo da iniquità, errori ed abusi che certamente affliggono l’esercizio della giurisdizione né a modellare una figura di giudice indipendente e rispettoso delle regole.

Il cittadino comune danneggiato nella libertà o nel patrimonio dalla negligenza di un giudice, difficilmente avrà tanta pazienza e fiducia nella giustizia, da affrontare, anticipandone le spese, un altro processo della durata di qualche lustro e il cui esito è affidato alla decisione di un altro giudice. Una simile trafila può affrontarla solo chi dispone di floride condizioni economiche e di attrezzati studi legali, interessato, più che ad avere un lontano risarcimento, ad esercitare una immediata pressione sul giudice o a delegittimarne il giudizio.
Non è questa la strada per risanare gli innegabili malanni della nostra giustizia. Occorrerebbero se mai incisivi interventi per elevare il livello della cultura della giurisdizione tra i nostri giudici. Una strada lunga e impegnativa, ma non valgono scorciatoie, che servono soltanto alle esigenze propagandistiche della cattiva politica.