Il prossimo 8 novembre l’anno diventerà “santo”. Perché per quella data papa Francesco ha indetto un giubileo, che durerà fino al novembre del 2016. Giubileo è una parola di origine ebraica, indica una ricorrenza che cadeva ogni 50 anni in cui, nella Palestina di un tempo, il popolo di Israele condonava i debiti, liberava i servi e restituiva i beni ai proprietari che li avevano perduti. Papa Francesco ha indetto il prossimo giubileo (straordinario, perché cadrà a soli 16 anni dall’ultimo) nel segno della misericordia. Un’attitudine che a molti di noi dice poco; ma credo che sul giubileo si possa comunque aprire un confronto: non con “il mondo cattolico” – termine vuoto e finzione di bassa politica – ma con quei cattolici che credono veramente in quello che professano (una componente importante di coloro che si battono per un mondo diverso). E se avremo anche la benedizione del papa, tanto meglio.

Dobbiamo però attualizzare i contenuti del giubileo: in termini generali non è difficile farlo. Come restituire i beni perduti al suo proprietario originario? Riportando beni e servizi che sono stati oggetto di appropriazione privata alla loro origine o funzione di “beni comuni” – cioè di tutti – al servizio di coloro che ne sono stati espropriati dai processi di privatizzazione. E questo vale sia per i beni materiali quali suoli, edifici e risorse di base come acqua, cibo e abitazione, sia per i servizi – in particolare i servizi pubblici locali e quelli di pubblica utilità – sia per quei beni che vengono al mondo grazie al lavoro congiunto di milioni di persone, ma espropriati quasi contestualmente alla loro comparsa, come i saperi, la cultura, la socialità. E poi, chiudendo per sempre il capitolo delle Grandi Opere: uno spreco (abbinato a furti e malversazioni continue) di risorse comuni per devastare territori e comunità.

Quanto alla liberazione dei servi, oggi questa categoria di lavoratori non è più contemplata dai codici civili; ma è in atto un processo teso a ricondurre a una condizione servile il lavoro – sia quello salariato che quello autonomo, come peraltro lo è da sempre gran parte del lavoro di cura – attraverso lo smantellamento completo di quei diritti, conquistati con dure lotte e immensi sacrifici, che in una qualche misura lo proteggevano dall’arbitrio del “padrone” (oggi datore di lavoro, committente, o capofamiglia). Innanzitutto il giubileo che libera i servi non può coincidere per noi che con l’abrogazione del Jobs act e con la reintroduzione dell’Articolo 18. Ma poi, con molte altre cose che caratterizzano un lavoro libero, la cui premessa è un reddito universale garantito, condizione ineliminabile perché il lavoro non sia esposto a continui ricatti.

Che cosa significhi oggi, infine, remissione dei debiti non abbiamo bisogno di andare a cercarlo lontano; perché le vicende della Grecia e, ancor prima, quelle di casa nostra lo hanno messo al centro del dibattito politico. Il primo debito da cui dobbiamo essere liberati è quello da cui ciascuno di noi è gravato senza averlo mai sottoscritto, perché lo hanno contratto, a nome e per conto nostro, senza esserne autorizzati, i nostri Governi: e non nei confronti di un’entità pubblica come una banca centrale (il che, in ultima analisi, avrebbe voluto dire essere debitori verso se stessi); bensì nei confronti di istituzioni finanziarie come banche private, assicurazioni e ricchissimi speculatori, che hanno fatto del debito cosiddetto “sovrano” uno strumento di governo delle politiche pubbliche e messo nelle loro mani – nel loro esclusivo interesse – la vita di milioni di cittadini e di lavoratori.

Poi ciascuno di noi può anche essersi indebitato per far fronte a esigenze che il suo reddito non gli permetteva di soddisfare: mutui, ratei, fidi, carte di credito, “prestiti d’onore”. E dietro quei debiti ritroviamo le stesse istituzioni. Tutto ciò fa del cittadino delle società odierne un “uomo indebitato”: la condizione esistenziale permanente di un “soggetto” – nel senso di suddito – da cui si potrà indefinitamente estrarre valore e a cui si potrà sempre imporre sottomissione per il solo fatto che non sarà mai più nella condizione di liberarsi dal suo debito.

In nessun caso come questo la remissione del debito è la risposta irrinunciabile per restituire a un giubileo il suo senso autentico. Poi interverrà la necessità di articolare, modulare e scadenzare nel tempo questo obiettivo: un esercizio che vede attualmente impegnato il nuovo governo greco, solo contro tutti. Ma quando arriverà il giubileo si spera che il governo greco sia riuscito a resistere e che altri attori – governi, istituzioni, movimenti di massa, nuove coalizioni sociali – si affianchino ad esso per condurre insieme questa sacrosanta battaglia.

Ma c’è un altro debito gigantesco che incombe su tutti noi e al cui confronto i debiti pubblici di tutti gli Stati del mondo sottoposti ai capricci dell’alta finanza non sono che fuscelli trasportati dal vento della storia. E’ il debito che abbiamo contratto e continuiamo a contrarre nei confronti della Terra, del vivente, dell’ambiente che abitiamo e di cui siamo parte. E’ un debito che non merita e non rende possibile alcuna remissione, perché, come dice papa Francesco, Dio perdona sempre; l’uomo talvolta; ma la natura non pedona mai.
Quello che le è stato e continua a venirle tolto le va restituito in qualche modo, pena la scomparsa delle condizioni stesse della sopravvivenza: nostra, dei nostri figli, dei nostri nipoti; e di coloro che avranno la ventura di nascere dopo di loro. Dobbiamo restituire alla natura la possibilità di “funzionare”: di operare nel modo che ha permesso alla serie lunghissima dei nostri progenitori e dei nostri antenati di arrivare a metterci al mondo.
Ma questo immenso debito generale ha molte facce e molti modi per essere saldato. Un faccia, la principale, è quello di cominciare a comportarci, nei nostri consumi, nel nostro stile di vita, nelle nostre scelte politiche – ma anche, e soprattutto, nella misura del possibile, nel nostro lavoro – in modo da offenderla il meno possibile; in modo da aiutarla a riprendersi, a ricostituire poco per volta la purezza dell’atmosfera e dell’aria che respiriamo, quella dei mari e dell’acqua che beviamo, la fertilità del suolo che ci nutre e di quanto della biodiversità è ancora sopravvissuto. Un compito non da poco.

L’altra faccia è il debito ambientale che noi, cittadini del mondo occidentale di antica a consolidata industrializzazione, abbiamo contratto nei confronti degli abitanti del resto del mondo, occupando per oltre due secoli, con le nostre emissioni climalteranti, l’atmosfera terrestre, che è un bene comune, forse il più grande: aria e spirito, respiro e vita sono originariamente sinonimi. Se non vogliamo che il resto del mondo segua – come già sta facendo – la nostra stessa strada moltiplicando per tre, per cinque, per sette, l’occupazione dell’atmosfera con emissioni pro-capite altrettanto nefaste (e con scarichi e rifiuti inquinanti in ogni angolo del pianeta) fino a creare, nel giro di pochi anni, un’alterazione irreversibile del clima e un inquinamento della Terra che la sta rendendo invivibile, dobbiamo spartire lo “spazio carbonico” ancora disponibile tra la generazione attuale e quelle future, e, all’interno della generazione attuale, tra chi ha già consumato molto carbonio e chi ha appena cominciato a farlo. E comportarci in modo analogo con i prelievi di risorse e i rifiuti solidi e liquidi. Un altro obiettivo non da poco.