In coda alla miriade di festival estivi (che non hanno nascosto quest’anno la loro crescente debolezza), arriva a Prato Contemporanea, ormai alla sua dodicesima edizione. Giunge per altro nel delicato punto di passaggio del teatro pubblico toscano, di cui la rassegna diretta da Edoardo Donatini è emanazione, con il previsto rinnovo postelettorale dei vertici, e la minacciata fusione del Metastasio con la Pergola fiorentina, nella speranza di entrare nel novero dei futuri teatri nazionali…

Non sono mancate le «delusioni», all’interno di Contemporanea che come le altre manifestazioni non può nascondere un disorientamento generazionale e generalizzato, ma per fortuna non sono mancate anche le «conferme«. Anzi le «certezze», come quella che con qualche avarizia distilla ogni anno Claudio Morganti.

L’attore da molto tempo si è impegnato, e anche chiuso, in una sua personale ricerca di fare teatro che lo porta lontano dalle ribalte tradizionali e dai testi con cui pure, un tempo, si è misurato, a cominciare da Harold Pinter. Ora predilige una sorta di riflessione analitica e amara, e non a caso questa volta riceve il suo pubblico affezionato in una sorta di cripta, che è un locale di pietra situato sotto all’istituto Magnolfi. In una sala dalle pareti spoglie, ma disseminata di tavolini su cui il pubblico trova acqua, vino e uva.

Una apparecchiatura che rischia un forte valore simbolico, quasi che si vada assistere ad un reale, amaro e veritiero, ma anche ogni tanto sorridente, funerale del teatro. Perché è un impietoso ritratto «dell’artista da vecchio» quello che l’attore officia e offre in sacrificio al pubblico ripercorrendo, quasi fosse un’ultima e definitiva tappa, la Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto. A fianco alla «prima» e unica attrice, sua moglie, per il cui ruolo Morganti ha voluto a fianco a sé Elena Bucci.

E insieme costituiscono una coppia notevole di teatranti old style, come poteva essere nel secolo scorso quella formata da Emanuel Palmi e Bianca D’Origlia, intestari dell’omonima ditta in cartellone, e che prima di esporsi all’intellettualità romana (che ne rubò il mestiere mentre li insolentiva dalla platea) nella sala di Borgo Santo Spirito, faceva tournée non dissimili da quelle dell’attore Vecchiatto, in località senza smalto della provincia di Roma.

L’elemento curioso dello spettacolo visto nella «catacomba» pratese, è la sua novità quasi assoluta, perché se ne ricorda una sola lettura, più di vent’anni fa, da parte dello stesso autore, scrittore per altro molto celebre e assai amato, Gianni Celati, che lo recitò nel teatrino di Fontanellato nell’ambito di una edizione del Festival di Parma. E per chi l’ha visto, non si può dimenticare l’emozione e in qualche modo «l’insicurezza» dello stesso Celati, maestro di scrittura ma spaesato sul palcoscenico. Sembravano evidenti anzi, in quella estrema funzione di un vecchio attore sprofondato nelle nebbie padane quanto in quelle della memoria, i legami con un testo di Thomas Bernhard, sempre sulla caducità del mestiere e dell’umanità dell’attore, Il teatrante appunto.

Morganti invece dissolve ogni dipendenza, assume totalmente in prima persona (come a fianco a lui fa la brava e commovente Elena Bucci), i tic e i vezzi, le illusioni e le delusioni, che testardamente un attore si porta dietro (e dentro) assieme ai propri ricordi. Che suonano spesso imprecisi o improbabili, come per ogni vecchiezza, ma nello stesso tempo danno grandezza e spessore a una vita passata sul palcoscenico. O che un palcoscenico ha creato ogni volta anche per il più elementare e quotidiano dei propri gesti. I racconti e i tentativi della loro continua ricucitura, si fanno così scultorei e commoventi, e «nuovi» come se mai li si fosse uditi. E questa cavalcata verso la morte, verso l’ultima definitiva chiusura di sipario, si fa quasi epica, pur senza alcuna retorica. Morganti e Bucci conquistano un testo, e insieme anche il pubblico del teatro.

Chi invece, incurante dei pericoli, continua a maneggiare un nichilismo aggressivo contro ogni convenzione (e quindi inevitabilmente anche contro il teatro) sono Valeria Raimondi e Enrico Castellani, ovvero Babilonia Teatri. Che al Fabbricone hanno presentato un’altra tappa del loro spettacolo dedicato a Jesus (visione finale definitiva a metà mese a Vignola per Vie).

Il loro attacco, forsennato quanto prevedibile, ai luoghi comuni della comunicazione, procede senza soste.
Col rischio però che le loro stesse invettive raggiungano la saturazione e diventino esse stesse luoghi comuni. Per quanto si presentino stavolta all’inizio con i figlioletti al collo (perpetuando pericolosamente la tradizione della Raffaello Sanzio) e facciano nascere dalle loro domande la «necessità» dello spettacolo, appare troppo facile l’ironia sulla massmediologia di papa Francesco, ad esempio, quasi un errore di sottovalutazione. Ci sono campi più spinosi ed eccitanti per una esercitazione del genere, dal premier di tutti Renzi al sindaco plebiscitario Tosi, con tutte le loro riverberazioni sulla stampa, che non il catechismo di san Pio decimo, seppur drenato attraverso Vasco Rossi.

E debolezze opposte ma non troppo dissimili, presentano le elegie botanico-sessual-musicali in tempo di Aids che Codice Ivan trae dal Journal de curaciòn di Derek Jarman. Il ricordo più incisivo resta la band, il resto fa rimpiangere certe pagine bellissime di Tondelli, e certe installazioni mitiche attraverso le piante, appunto, di Bacilieri e Taddei che formavano trent’anni fa Padiglione Italia.