Quando, nel 1971, Gitta Sereny inizia a pubblicare a puntate sul Daily Telegraph Magazine in Gran Bretagna il risultato dei colloqui che ha avuto nel carcere di Dusseldorf con Franz Stangl, già comandante dei campi nazisti di Sobibor e Treblinka – la serie di interviste che saranno poi alla base del volume In quelle tenebre, pubblicato nel 1974 a Londra e nel nostro Paese l’anno successivo da Adelphi -, l’orrore della Shoah è ovviamente noto all’opinione pubblica internazionale, anche se la memoria di quanto accaduto è spesso confusa, generica, fatica a dare un volto alle vittime come ai carnefici.

DOPO IL PROCESSO di Norimberga, celebrato nell’immediatezza della conclusione del Secondo conflitto mondiale, dove però il genocidio ebraico non era stato considerato specificamente se non nel quadro dei crimini di guerra e contro l’umanità, e dove erano stati giudicati solo i vertici del Terzo Reich, si era dovuto attendere la cattura, in Argentina, e il processo, in Israele, nei confronti di Adolf Eichmann nel 1961 perché i contorni criminali della Soluzione finale fossero di nuovo al centro dell’attenzione internazionale.

Di lì a pochi anni, tra il 1963 e il 1965, si sarebbero celebrati a Francoforte la serie di processi a parte del personale delle SS che aveva operato ad Auschwitz, aprendo così la strada al riconoscimento della vastità delle responsabilità che avevano reso possibile il genocidio. Anche se, a detta di molti storici, sarà solo nel 1978 con la programmazione sulle reti televisive, prima statunitensi e quindi europee, della serie Olocausto che anche le nuove generazioni inizieranno davvero a misurarsi con quella tragedia.

IN QUESTO CONTESTO, l’opera di Sereny, lei stessa figlia di un’attrice ebrea tedesca e che era fuggita da Vienna al momento dell’Anschluss prima alla volta di Parigi e quindi di New York, e che come giornalista aveva assistito nel 1945 al processo di Norimberga, assunse per molti versi il significato di una rivelazione. Se meno di un decennio prima Hannah Arendt aveva raccontato nel diario delle udienze di Eichmann a Gerusalemme, redatto per il New Yorker, i meccanismi organizzativi della Shoah e il profilo dei suoi responsabili – i saggi poi alla base di La banalità del male, 1963 -, Sereny dava un volto ed un nome a quell’orrore, ne faceva in qualche modo raccontare le tappe ad uno dei suoi tragici protagonisti.

Nelle oltre 70 ore di dialoghi che aveva registrato con Franz Stangl, individuato da Simon Wiesenthal e estradato dal Brasile dove si era nascosto al termine della guerra grazie al sostegno della ratlines vaticana alimentata a Roma dal vescovo Alois Hudal, il comandante di due dei campi della morte nazisti dove nello spazio di un paio d’anni furono uccise tra le 700 e 900mila persone, ripercorre lucidamente la propria carriera di cattolico e ultranazionalista in seno al partito di Hitler, evoca lo status sociale raggiunto ma minimizza le proprie responsabilità nel portare a termine il progetto dello sterminio.

Eppure Stangl, che condannato all’ergastolo nell’ottobre del 1970 sarebbe morto d’infarto nel giugno dell’anno seguente, proprio poche ore dopo aver terminato di rispondere alle domande di Sereny, conclude quel lungo monologo controvoglia al quale la giornalista lo ha spinto ammettendo le proprie responsabilità, la propria colpa nel crimine più brutale che l’umanità abbia conosciuto fino a quel momento. L’unico comandante di un lager che era stato portato a rispondere delle proprie responsabilità davanti ad un tribunale, seppure trent’anni dopo i fatti, concluse quel colloquio affermando con voce incerta che dopo ciò di cui era stato responsabile, «la mia colpa è di essere ancora qui. Avrei dovuto morire».