Uno dei libri a cui sono più affezionato è una selezione di poesie dell’indiano Rabindranath Tagore (1861-1941), Il paniere di frutta, scelta di diversi poemi pubblicati dall’autore nato a Calcutta e pubblicati fra il 1886 ed il 1915.

In copertina una sua magnetica fotografia ritratto in bianco e nero, con la barba lunga, della stessa intensità di colore dei ghiacciai perenni. Un’edizione della collana Testi e documenti di SE Studio Editoriale. Ora, si affianca una nuova selezione delle sue poesie dal titolo Gitanjali, ovvero Canti in offerta, curata dal traduttore toscano Andrea Sirotti, attivo interprete della poesia coloniale e postcoloniale, come testimonia la sua lunga militanza nella rivista Semicerchio.

Tagore è stata una figura di riferimento per molte ragioni: figlio di una famiglia aristocratica di grande rilievo nello scenario culturale e sociale del Bengala, è stato poeta (Premio Nobel per la Letteratura nel 1913), pittore, canzoniere, ha operato a favore dei contadini del suo paese, pei quali ha istituito anche delle tecniche di sfruttamento più redditizio delle terre e degli animali, ed è stata figura centrale della spiritualità. Come scrive Sirotti nella sua introduzione, «non appare esagerato affermare che l’edificio dell’India moderna si poggia su due pilastri: Tagore e Gandhi».

Anzitutto era un cosmopolita, in un’epoca in cui l’India lottava per disarcionare la tirannia degli Inglesi e la schiavitù della miseria e delle carestie, egli credeva che la storia degli uomini fosse una soltanto. Inoltre la sua poesia rispecchiava un’attenzione nei confronti di tutte le forme di esistenze, insetti, piante, gocce di rugiada, ma anche amore, passione, erotismo, un uomo fra gli uomini. Particolarmente interessanti restano le sue attenzioni allo stato di natura, o delle nature, un poeta contemplativo, certamente, in ascolto delle minime variazioni quanto della presenza di un Dio sovrano e cosmico: «Tu mi hai fatto senza fine / come hai voluto. / Tu continui a vuotare / questo fragile vaso / e sempre lo riempi di nuova vita // I tuoi doni infiniti mi giungono / su queste piccole mani. / Il tempo passa / tu continui a versare / e c’è ancora spazio da riempire» (Poesia 1). La luce è un filtro potente che irradia anima e anime: «Luce che inondi la terra, / luce che baci gli occhi, / luce che addolcisci il cuore!» (Poesia 57).

Al lettore contemporaneo questi toni intimi e schietti, e il linguaggio asciutto, potrebbero suggerire l’idea di una certa spontaneità, che purtroppo il concettualismo della poesia europea ha relegato in una casella prossima alla banalità. A mio parere è un errore d’interpretazione ma spesso lo si sente vibrare, avvezzi come siamo a un certo manierismo di linguaggi e forme. Non dimentichiamo, comunque, che stiamo navigando fra le parole e i versi di un’opera pubblicata un secolo fa, quando Dio, il nostro come il loro, abitava ancora nei templi e nelle chiese, mentre Tagore già allora lo faceva contaminare col mondo dei viventi: Dio sta dove il «contadino ara la terra dura / e sulla strada dove fatica lo spaccapietre. / Egli è con loro // Esci dalle tue meditazioni / e metti da parte i tuoi fiori e l’incenso! / Che male c’è se le tue vesti / si fanno cenciose e sporche? / Vagli incontro e stagli vicino / nella fatica e nel sudore della fronte» (Poesia 11). Proviamo ad immaginare i politici e i manager della cosa pubblica dei nostri giorni, cosa direbbero al posto di Tagore? Davvero infangherebbero i loro costosi abiti con il contadino che bestemmia mentre fatica, per quattro spiccioli incerti? C’è di che riflettere.

Gintanjali è uscita nella collana Passepartout dell’editore Demetra, parte del gruppo editoriale Giunti, collana di nuovi classici – fra gli altri titoli, ad esempio, i Colloqui di Marco Aurelio, Il castello interiore di Teresa d’Avila, Imitazione di Cristo – diretta dal poeta Paolo Iacuzzi.