Racconta Amos Gitai che Ana Arabia prende spunto da molte cose. All’origine c’è un fatto di cronaca, la storia di una donna musulmana a Oum El-Fahem, un villaggio arabo vicino Jaffa, che curata per una mancanza di calcio rivela al medico di essere nata a Auschwitz e di essere perciò ebrea. Cresciuta in Israele dopo la guerra, si era innamorata di un operaio arabo, per stare insieme a lui aveva abbandonato la sua famiglia. Poi c’è l’idea di lavorare ancora una volta tra quelle comunità in cui ebrei e arabi vivono insieme.

E il desiderio di narrare un luogo, il sobborgo di Tel Aviv dove è girato il film, che la speculazione cerca di «ripulire» cacciando i palestinesi per fare posto alle case della classe media israeliana, o ai palazzoni in cui si stipano coloni immigrati. Ma soprattutto Ana Arabia, punta magica nel concorso della scorsa Mostra del cinema di Venezia, ora finalmente nelle nostre sale, si radica profondamente nella ricerca del regista che continua a percorrere le contraddizioni del suo paese, Israele, lungo i bordi di passato e presente, trasformandole in una scelta poetica e politica.

Non si tratta semplicemente di raccontare il «conflitto» tra Israele e Palestina, lo sguardo di Gitai si spinge sempre più lontano in Europa e nel mondo, un’ «andata e ritorno» che interroga la Storia, e non per avere un’unica risposta.

Yael, giovane giornalista (la splendida Yuval Scharf) arriva nell’enclave tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, per intervistare Youssef, il marito arabo di Hannah Kibanov, una donna ebrea divenuta musulmana col nome di Siam Hassam. Vuole capire di più di quella vicenda commuovente e strana, e come varca l’inquadratura che è la stretta soglia di accesso al quartiere – confine invisibile e al tempo stesso netto – si trova in un luogo altro. Nel cortile verde di limoni, piante, orti, tra le abitazioni povere unite l’una all’altra da stretti passaggi scopre le storie di Youssef, Miriam, Sarah, Walid, Jihad, e di molti altri; gli amici, i vicini di casa, ognuno con i suoi sogni traditi, le sue gioie e le sue amarezze, gli amori e i ricordi preziosi. Che si dipanano lentamente, nel susseguirsi delle parole a cui è affidata la narrazione, nei passaggi dagli uomini alle donne, quasi figure di un coro classico, che Yael compie nel suo movimento.

Sono arabi e ebrei che vivono insieme e in pace da molti anni parlando le due lingue – come gli attori, Yussuf Abu Warda, Sarah Adler, Assi Levy, Uri Gavriel, Norman Issa, Shady Srur.
La ragazza fa domande che rimangono senza risposta, e riceve invece altre cose, altre storie: Miriam parla della madre, della sua scelta coraggiosa, fatta per amore anche se tutti non l’avevano mai accettata fino in fondo. Era rimasta per sempre la nemica, difficile dimenticarlo. Sarah è ebrea, si è rifugiata tra loro quando Jihad, il figlio di Youssef, l’ha cominciata a picchiare. I figli più grandi dell’uomo non la volevano, pure lei era un corpo estraneo tra loro, ostile, ma oggi preferisce dimenticare e lasciare colare il tempo del dolore con lentezza.

Nel progetto iniziale Gitai aveva pensato di girare a Oum El-Fahem, e di concentrare l’azione intorno al personaggio di Hannah, la donna ebrea divenuta musulmana. Poi c’è stata la scperta di questo sobborgo precario, nascosto tra le colline di Jaffa, quasi invisibile dall’esterno, dove i polli razzolano tra le carcasse delle automobili e l’erba cresce selvaggia. Anche la storia è cambiata, e il personaggio di Hannah, con la sua attrice (Hanna Laslo) è sfumato nel volto di Sarah Adler (protagonista per Godard in Notre Music), che interpreta sua figlia. Mentre la storia di Hannah è divenuta, appunto, narrazione orale, quasi un racconto da mille e una notte in cui balena anche l’epopea di uno schiavo nero musulmano innamorato della padrona bianca, che per lei combatte i nemici che vogliono farla prigioniera.
Ho trovato qualcosa di incredibile dice Yael al suo caporedattore. Qualcosa di incredibile come il dono di parlare con gli altri e la scoperta dell’ospitalità.
La macchina da presa segue i personaggi, li carezza, quasi come in una danza, morbida, pudica, rispettosa delle loro intimità. Gitai ha girato l’intero film, circa un’ora e mezzo, in piano sequenza con una Alexa riflettendo lo sgranarsi delle ore nei passaggi di luce che pian piano cambiano anche la prospettiva dei personaggi, rendendoci testimoni oltrché spettatori della nascita di un film.

Non ci sono stacchi, e con questa «estremizzazione» del suo amore per il piano sequenza, il suo sguardo «palestinizza» gli israeliani e viceversa. Gitai è un regista con un potente senso della messinscena, del cinema e dei suoi movimenti, ma come sempre nei suoi lavor, questa scelta non è una semplice dichiarazione di estetica, e meno che mai l’espressione di un autocompiacimento.

Non si guarda filmare Gitai né produce universi autoritari che impongono a noi spettatori una visione del mondo, o la sua ideologia. Il suo cinema ha anticipato di decenni la «confusione» tra finzione e documentario, saggio e poesia, rito e vita. E la sua forza politica è proprio nella libertà radicale che oppone agli schematismi in ogni scelta di regia, nel modo con cui interroga costantemente l’immaginario.
Lo spazio comune di un’utopia, anche se è forse una piccola realtà, di vita insieme nel rispetto delle differenze passa dunque nel flusso ininterrotto della macchina da presa. Un respiro unico, che unisce i frammenti di un mondo separato senza soffocarne uno a scapito dell’altro, ma lasciando a ciascuno il tempo necessario a divenirne parte. La Storia, e la guerra quotidiana sono tracce disseminate, accenni a qualcosa che appena oltre la soglia preme, ed è gigantesco, divorante come lo skyline che ci rivela l’ultima inquadratura. I grattacieli di un’occupazione che ha destinato un popolo a sparire, condannando così anche l’altro.

Nel suo piano sequenza Gitai lascia alla parola la forza «transculturale» che l’immagine non illustra né asseconda. Ascoltiamo i suoi personaggi parlare, voci di un altrove, di una dissonante resistenza da inventare.