Il libro I Girolamini Storie di artisti e committenti a Napoli nel Seicento di Gianluca Forgione (Editori Paparo, pp. 208, euro 50,00) perlustra le gloriose vicende artistiche dell’Oratorio partenopeo nel XVII secolo. Lo studio, mutuato dalla tesi di dottorato dell’autore (e perciò con ricche digressioni documentarie), ci riporta al punto di partenza del Complesso storico artistico dei Girolamini, tessendo un racconto saldamente ancorato alle fonti e aperto a interessanti riletture mediante l’uso integrato di più strumenti: la storia degli stili e delle iconografie richiama quella devozionale, e la storia religiosa quella architettonica e sociale, e da tutte queste insieme prende forma un avvincente intreccio di artisti, mecenati e linguaggi nello scenario della Napoli barocca.
L’Oratorio s’insedia in città nel 1586. Man mano che si emancipano dalla casa madre di Roma, i padri di san Filippo Neri coltivano un gran numero di relazioni che alimentano la fabbrica dei Girolamini in un vivace crescendo d’entusiasmo. Basterebbe dire che in pochi anni la comunità arriva ad occupare un’intera insula urbana, in un angolo bene in vista di Napoli – il centro antico tra via Duomo e via dei Tribunali – per dare un’idea chiara del successo dell’impresa. A sovrintenderla c’è Antonio Talpa, uomo colto e già prefetto di fabbrica della Chiesa Nuova, che attribuisce alla magnificenza il significato implicito dello stupore, e quindi della conquista spirituale, secondo i motivi di netto sapore propagandistico della Controriforma. La chiesa dei Girolamini viene immaginata con un modello a pianta basilicale che assomiglia programmaticamente alle chiese cristiane delle origini. Al bando ogni parsimonia, però, si scrive una pagina nuova dell’architettura partenopea. Le sei coppie di colonne di grandiose proporzioni, che scandiscono il ritmo delle navate, distillano in sé stesse l’essenza monumentale dell’edificio.
Tra le pagine del libro prende nuovo risalto la figura di uno dei tanti benefattori dell’Oratorio, il sarto pugliese Giovanni Domenico Lercaro. È risaputo che il nucleo originario della splendida quadreria dei Girolamini proviene proprio da una sua donazione che, tra l’altro, impegnava i beneficati a proteggere i dipinti da ogni minaccia, anche da eventuali prestiti (che lezione per il presente!). Nuovo è, invece, il peso che quell’acquisizione – ben 57 dipinti – assunse nell’economia della collezione filippina, al punto da valutarsi come il più importante contributo alla sua fondazione. Traspare nell’inventario inedito dei beni del Lercaro e da alcuni suoi movimenti finanziari una discreta familiarità col mondo dei pittori: su tutti, Jusepe de Ribera, Fabrizio Santafede e Giovanni Bernardino Azzolino. Sembra allora plausibile immaginare, come il Forgione fa, che la sua raccolta includesse quadri di prima scelta di questi stessi artisti, poi arrivati ai Girolamini. Opere come il Matrimonio mistico di sant’Agnese (dell’Azzolino) e la Chiamata di Giacomo e Giovanni all’apostolato (del Santafede), ad esempio, datano proprio in coerenza col lascito.
Due degli episodi più significativi della storia dell’Oratorio napoletano nel Seicento s’imperniano intorno alla figura di Anna Colonna. Parla per lei il giudizio del cardinale Francesco Barberini quando scrive: «È la meglior signora del mondo, ma come piglia un negotio, è difficile rimoverla». E, infatti, profittando di una posizione sociale resa comoda dalle parentele (era moglie di Taddeo Barberini e quindi nipote acquisita di papa Urbano VIII), la Colonna si decide a patrocinare i Girolamini e a favorirli in ogni modo. Nel 1638 esporta a Napoli la Morte di Sant’Alessio di Pietro da Cortona, un veicolo ideale per far conoscere il nuovo barocco romano al Sud: a quell’invenzione non mancarono d’ispirarsi, anche se su frequenze diverse, Luca Giordano e Francesco Solimena. L’anno seguente, poi, la principessa Colonna ottiene di forza alcune reliquie di san Filippo Neri e le regala a Napoli. Una tale iniziativa – mero pretesto per un’esibizione di potere – non mancò di preoccupare i padri della Vallicella, che provarono pure ad occultare i resti del fondatore per non cedere alla prepotenza. Al netto del sopruso, ciò che conta però è che quelle reliquie giunsero ai Girolamini scortate da un prezioso reliquiario di Alessandro Algardi, segnando un altro apporto di alta qualità artistica a merito della nobildonna.
La ricognizione sul sodalizio filippino di Napoli durante il XVII secolo non manca naturalmente di valorizzare il contributo dei padroni di casa. Si prenda il caso dell’antico altare maggiore, ingagliardito con lapislazzuli, madreperla e commessi marmorei e poi smontato e (s)venduto nell’Ottocento a Sant’Agata sopra Sorrento, dove tuttora sta. O, ancora, alla cupola, popolata di stucchi dorati e statue monumentali (dodici di queste le modellò il giovane Lorenzo Vaccaro), poi abbattuta perché rovinante nel XIX secolo. Queste imprese, entrambe dello scultore napoletano Dionisio Lazzari, vennero avviate grazie al finanziamento di padre Giovan Tommaso Spina.
La vicenda più recente del Complesso dei Girolamini di Napoli è stata travagliata da una sequenza interminabile di eventi disgraziati: gli sconquassi delle bombe americane nel 1943; il saccheggio degli arredi sacri nella Basilica poco tempo dopo; le convulsioni del terremoto nel 1980; il terribile furto di libri che tanta sensazione ha creato ovunque; infine, le minacce di crolli di questi ultimi mesi. Ricontrollato il passato artistico attraverso i documenti, il resoconto di Forgione fa ampiamente i conti con questo stato dell’arte. Per stabilire sì, un punto d’incontro virtuale tra fonti e contesto a rigenerare il legame spezzato, e certo pure per intrecciare ipotetici paragoni tra quel patrimonio ed esemplari omologhi che possano ragionevolmente presentarvi qualche attinenza, ma anche per deprecare il fatto che l’Archivio storico, che tanto avrebbe potuto offrire a un lavoro del genere, resti tuttora sotto chiave e inaccessibile agli studi. Come racconta Tomaso Montanari nella presentazione, è stato proprio un sopralluogo all’inizio di questa ricerca nel marzo 2012 a svelare lo scandalo della Biblioteca dei Girolamini – «il più grande scempio doloso di patrimonio culturale della storia dell’Italia repubblicana» – e a dare l’avvio a ciò che ne è seguito. Il libro si configura, allora, come «un invito pressante a richiamare in vita la storia dell’immensa Napoli sacra che oggi langue in abbandono e pericolo». La conoscenza è l’unica vaccinazione terapeutica a tanto degrado.