Paul Thomas Anderson, Kathryn Bigelow, Spike Jonze, David O. Russell, Harmony Korine, I fratelli Coen, Todd Solondz, Richard Linklater…. Il nome che accomuna queste punte del cinema americano contemporaneo è Annapurna. Dal 2012 a oggi, la mitica, idiosincratica, compagnia della trentaduenne Megan Ellison è stato uno dei centri del potere creativo hollywoodiano, una boutique di/per autori, alimentata dai capitali virtualmente inesauribili di papà (Larry Ellison, fondatore e tutt‘ora alle redini di Oracle – è considerato da Forbes il quinto uomo più ricco degli Usa), che non aveva paura di film visionari e politicamente esplosivi come Zero Dark Thirty e Detroit, di attaccare la Scientologia con il 70mm in The Master, della splendida eversione pop di Spring Breakers, dell’esistenzialismo radicale di Her o dei cannibali dell’americano/iraniana Ana Lili Amirpour. Imbattibile quando si tratta di annusare la coolness di un nuovo autore, e molto generosa con quelli reclutati nella sua factory, Ellison non ha mai avuta la reputazione di una grande business woman -la conferma è arrivata mercoledì, con l’annuncio prima della cancellazione di due film già annunciati, della fuoriuscita del direttore di produzione Chelsea Barnard e poi del fatto che – dato il disastroso stato finanziario della compagnia – papà Larry sarebbe intervenuto personalmente nella gestione del tutto.

Da allora, i portavoce di Annapurna sminuiscono l’entità delle crisi e le implicazioni dell’intervento del genitore (che combina il Dna libertario caratteristico di Silicon Valley a simpatie repubblicane, e a un’amicizia personale con Rupert Murdoch). Ma, mentre l’ultimo titolo della compagnia, il western revisionista di Jaques Audiard The Sisters Brothers, languisce in sala (costato 40 milioni di dollari ne ha incassati per ora solo 770mila), i primi segni del «nuovo regime» forse si vedono già nella decisione di sganciarsi dalla produzione di un film biografico sul fondatore di Fox News Roger Ailes (il progetto è adesso passato alla Focus) e dalla storia di spogliarelliste con Jennifer Lopez, The Hustlers at Scores, assorbita invece da STX. Serpeggia il nervosismo sull’imminente uscita in sala del nuovo film di Barry Jenkins, If Beale Street Could Talk , ma soprattutto su quella di Vice, il biopic su Dick Cheney, con Christian Bale, diretto da Adam McKay per 60 milioni di dollari. Sarebbero i budget, considerati troppo alti per film «d’arte» e, più ancora, la scelta di gestire direttamente la distribuzione del proprio listino a provocare il disastro. Era stato Harvey Weinstein, per esempio, e distribuire i primi tre film targati Annapurna, tra cui The Master (secondo le voci il rapporto tra lui e Megan Ellison sarebbe stato pessimo), mentre la WB aveva fatto uscire Her, la Fox Joy di David O. Russell e la Sony Zero Dark Thirty.

Apparentemente poco soddisfatta di come gli studios gestivano i suoi titoli, Ellison ha deciso di fare da sola a partire da Detroit, con il risultato che il, bellissimo film di Kathryn Bigelow (45 milioni di dollari), grazie all’arroganza sua combinata con quella della regista, è stato sostanzialmente mandato al macero da un’uscita estiva senza campagna pubblicitaria che lo sostenesse. La crisi di Annapurna è sicuramente il segno di una gestione troppo spericolata, e ci auguriamo che Megan Ellison continui all’insegna delle ambizioni estetiche che hanno contraddistinto i suoi prodotti. Ma il giro di vite potrebbe anche essere un campanello d’allarme più emblematico -come Annapurna, Netflix, Amazon e altre piattaforme, stanno attirando nelle loro scuderie i migliori registi Usa, con promesse di budget e libertà creativa vastissimi. Dato il rapporto a dir poco misterioso tra quegli investimenti e i loro ritorni finanziari, c’è da chiedersi fino a quando durerà la pazienza di Silicon Valley nei confronti della A list di Hollywood.

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