Girl (Certain Regard) nel passaparola festivalieri è subito l’it film da non perdere, opera prima di un regista fiammingo, Lukas Dhont, che dopo alcuni fortunati cortometraggi, Corps perdu (2012), L’infini (2014), passa alla Cinéfondation di Cannes, con una residenza nel corso della quale sviluppa il soggetto del lungometraggio insieme allo sceneggiatore Angelo Tjssens. La storia è quella di Lara, quindicenne alle prese con la durezza dell’adolescenza, il corpo che cambia, gli occhi che scovano feroci ogni difetto, la voglia di piacere, di essere accettati, di fare parte di qualcosa, di innamorarsi. Ma per lei, che è nata al mondo Victor, le asprezze «letterarie» dell’età sono più crude. Che fare di quel sesso tra le gambe che odia, che ha sempre odiato, che le altre ragazze vogliono vedere con la perfidia che solo quegli anni riescono a palesare… Lara è una danzatrice,vorrebbe piroettare lieve ma il corpo, anche lì non le risponde. Le punte di gesso le massacrano i piedi, ogni passo è sangue e unghie peste, gli ormoni la devastano, le tette nemmeno spuntano, l’operazione che la renderebbe una «vera» ragazza è sempre più lontana… A questa disperazione non serve a nulla la cura dell’amorevole padre o la tenerezza del fratellino, solo una cosa può finalmente renderla una «vera» ragazza e lei è disposta a rischiare tutto…

C’è una furia in questo personaggio reso con grande bravura dalla giovane interprete Victor Polster, quel tutto&subito assoluto dell’età che la sua condizione rende più violento e esigente. E questa determinazione sembra orientare anche il regista nel suo racconto costruita per arrivare dove arriva senza possibilità di detour, che lascia fuori campo ambiguità e sfumature.

La famiglia di Lara è tutta maschile – tre figli maschi sospira un’amica del padre e un quarto in arrivo – le compagne di corso a danza sono jene (è così in ogni scuola di danza ma il «genere» non c’entra, vale piuttosto la competizione che ti mettono in testa), tutto quanto capita potrebbe non essere troppo diverso dall’esperienza di un adolescente alle prese con una sessualità ambigua, confusa, fluttuante, se non fosse che per tutti – padre, medici, insegnanti – quel sesso è la discriminante. E ovviamente anche per la povera ragazza, costretta a chiudere il proprio corpo in regole ferree invece di essere sostenuta e aiutata per scoprirne le potenzialità (non a caso balletto e non danza moderna) e una possibile diversa consapevolezza facendo coincidere «femminilità» con libertà dal pene. Le cose magari sono un po’ più complicate di così.

Più eccentrico nei suoi passaggi di «gender» Diamantino – Semaine de la Critique – di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt, anche loro cresciuti nel cortometraggio, nomi di punta del cinema internazionale di tendenza, il primo portoghese, il secondo americano. Il «Diamantino» del titolo è un calciatore star portoghese che somiglia a Cristiano Ronaldo, pallone d’oro e miliardario, ragazzo dal cuore pieno di compassione ma idiota totale, tiranneggiato da due terribili e avidissime sorelle che dirottano tutti i suoi soldi su conti off shore. Quando all’improvviso perde il suo talento in una tragica finale di Coppa del Mondo in cui sbaglia il classico calcio di rigore, scopre i problemi del presente, il colonialismo, l’impegno umanitario decidendo di adottare in ragazzino africano.

Tra la fiaba e l’exploitation pop la coppia dei registi «gioca» letteralmente coi generi, sessuali e cinematografici mettendo tutto insieme, i grandi temi della nostra epoca, politica, nazionalismi, migranti, neoliberismo, il fantasy dei vecchi b-movie con gli scienziati pazzi, le storie d’amore e di spionaggio. È molto, anche troppo ma la libertà divertita che Abrantes e Schmidt si prendono (non prendendosi sul serio) rispetto alle ambizioni del loro progetto è già un bel segno.