La voce al telefono è calda e sin da subito sento una mente aperta nel dialogo con me, e traspare da subito quel suo tipico sense of humour. Sto parlando di Gipi, Gianni Pacinotti, cinquantaquattro anni, fumettista ben noto ai più (non solo per le strisce apparse su Internazionale) e pluripremiato, di cui ricordiamo Una storia (Premio Strega) e il recente La terra dei figli (bestseller tradotto in ben sedici lingue). L’ho chiamato per sapere qualcosa in più su Il ragazzo più felice del mondo che sarà alla Mostra di Venezia nella sezione Sconfini (in programma l’1 settembre).
Ci racconti il plot con venticinque parole come ti avrebbero chiesto a Hollywood?
Non so se ce la faccio così in breve, proviamo: il film parte da una storia vera. Nel 1997, quand’ero ancora un disegnatore sconosciuto, mi arrivò una lettera su carta da un giovane ammiratore. Scriveva di avere quindici anni e che ero il suo fumettista preferito. Nella lettera mi chiedeva un disegno, «uno schizzetto», e sosteneva che, se glielo avessi inviato, avrei fatto di lui: «Il ragazzo più felice del mondo». Stacco. Siamo nell’aprile 2017. Trovo un post su facebook di un altro fumettista, ritrae una foto di una lettera scritta su carta che ha appena ricevuto. Viene da un ragazzino di quindici anni. Scrive che se potesse avere uno schizzetto da parte di questo fumettista, diventerebbe «il ragazzo più felice del mondo». In pratica, la stessa lettera che avevo ricevuto io venti anni prima. Volevo saperne di più. Quella sera scrissi un messaggio ad altri amici fumettisti, domandando se per caso anche loro avessero ricevuto una lettera simile. Poi me ne andai a letto. Al mattino dopo avevo più di cinquanta messaggi, con scansioni delle lettere che, negli anni, avevano ricevuto. Tutte, più o meno, avevano lo stesso testo. Quindi, esisteva un signore che per vent’anni aveva finto di essere un adolescente per avere dei disegni da tantissimi fumettisti italiani.
Da qui inizia il progetto del film. Doveva essere un documentario. Nella mia idea, dopo le ricerche per scoprire chi fosse realmente questa persona, avrei preso tutti i fumettisti che avevano ricevuto la lettera e li avrei portati da lui, per fargli passare la giornata più bella della sua vita, con tutti i suoi disegnatori preferiti che gli facevano tutti i disegni che voleva, senza avere più bisogno di nascondersi. Volevo affittare un bus, andare a casa sua e fargli una sorpresa. Una bella sorpresa. Allo stesso tempo, volevo raccontare tutta la ricerca e desideravo che il documentario avesse un taglio buffo, con momenti di comicità. Per lavorare come volevo avevo bisogno di due cose: degli amici con cui recitare, che non avessero strutture o impostazioni, e una troupe leggerissima, che si adattasse bene allo spirito scanzonato che volevo dare al lavoro.
Abbiamo girato un paio di settimane. Poi ci siamo fermati per un mese. In quel periodo ho fatto fare un’analisi calligrafica delle lettere, per avere una minima idea della persona che ci saremmo trovati davanti, alla fine. La perizia diceva che questa persona avrebbe forse reagito in modo violento al nostro arrivo, ma, soprattutto, indicava che noi avremmo sicuramente fatto del male a lui, svelando il suo segreto.
E questo che effetto ha avuto sul film?
Ha cambiato tutto. Mi ha portato a riflettere se fosse giusto rischiare di fare del male a qualcuno solo per raccontare una storia. Però, io di storie ci campo, e quella storia era forte, e tutti volevamo sapere che faccia aveva questa persona, chi era, come viveva e quindi…
E quindi qui non dico altro, altrimenti rovino la visione del film.
Com’era lavorare su un set, a «dipingere» le tavolozze dal vivo anziché su carta al tavolino?
Sono due mondi diversi. Per quanto mi riguarda il lavoro sui libri a fumetti è un’attività di solitudine. Posso stare uno, due anni su un volume e sono sempre solo. Il cinema è come una festa. Si condividono le giornate, le idee. È una continua e necessaria apertura agli altri. Certo, nel fumetto ho una maggiore esperienza. Potrei dire, usando un brutto termine, che sono più «bravo». Ma girare è stato un tale divertimento che mi dicevo che forse quell’aria di gioco e di affetto (i protagonisti sono tutti miei amici) sarebbe filtrata nella storia. Sarebbe stata visibile, alla fine del lavoro. E poi, lavorando con una squadra ridotta, tutta composta di ragazzi giovanissimi, avevamo grandi margini di improvvisazione, di invenzione, e ci siamo divertiti davvero tanto.
Hai dichiarato di aver raccolto attorno a te vari amici.
Soprattutto i tre attori protagonisti, Gero Arnone, Davide Barbafiera e Francesco Daniele. Sono tra i miei amici più cari. Ed è con loro, tra l’altro, che ho realizzato tutti i cortometraggi andati in onda su La7, a «Propaganda Live».
Hai fatto anche altre esperienze cinematografiche.
Nel 2011 ho diretto il mio primo lungometraggio L’ultimo terrestre che finì in concorso ufficiale al festival di Venezia. Poi un documentario pazzo: Smettere di fumare fumando, dove documentavo il mio smettere di fumare (reale) passando da 40 sigarette a zero da un giorno all’altro. Dieci giorni di riprese continue e di delirio. Venne presentato al Festival di Torino ma poi decisi di non farlo uscire, per vari motivi, non ultimo che avevo girato tutto in modo illegale, senza liberatorie, autorizzazioni ecc. In pratica non avevo rispettato la privacy di niente e di nessuno e mi sarebbero arrivate tante di quelle denunce… Però fu un buon esperimento, giravo da solo, montavo, facevo le musiche. Ho imparato tanto.
Quando ho iniziato Il ragazzo più felice del mondo, ho avuto mia moglie Chiara, che ha fatto da produttrice esecutiva, che si è preoccupata di impedirmi di fare altre stupidaggini simili. E quindi abbiamo girato rispettando tutte le regole.
Che musiche hai usato?
Le musiche sono state scritte e orchestrate da Valerio Vigliar, con il quale avevo lavorato anche nel primo film. E credo, anche se non dovrei dirlo io, che abbia fatto un lavoro incredibile. Quello che gli ho chiesto, visto che il film era piccolo, improvvisato, storto e artigianale, era di comporre musiche classiche, da «filmone». E lui lo ha fatto, scrivendo temi molto belli, suonati dall’orchestra. Un lavoro monumentale che ha dato solidità al film. Valerio, come sempre (forse più di sempre) è stato davvero bravo, ma tutti i miei giovani collaboratori hanno lavorato benissimo.
Come li hai trovati?
Una notte a un bar, vicino a Laurentina, ho raccontato l’idea a un mio giovane amico, un regista diplomato da poco al Centro Sperimentale. Ma avevo paura di lavorare a un nuovo film, inoltre a Roma, dove mi ero trasferito da poco, conoscevo pochissime persone. E lui mi ha detto: «Ci penso io». E lo ha fatto. Tempo una settimana e avevo tutta la troupe.
Tutti giovani. Praticamente nessuno di loro superava i trent’anni di età, il più vecchio ero io.
Nei tuoi fumetti, a mio avviso, il colore ricopre un ruolo importante, qui come hai gestito questo aspetto?
Essendo un documentario che poi volge in un (quasi) finto documentario, non ho avuto margini per costruire scene o altro. Filmavamo nella realtà, e la realtà, spesso, è anche brutta (ride di gusto).
Gli unici margini di intervento stavano nelle scenografie e nei costumi. Cercavamo, con il costumista Stefano Ciammitti di avere dei toni equilibrati e con Francesca Vitale, la scenografa, abbiamo cercato, nei limiti del budget che avevamo, di ridurre il coefficiente di bruttezza, almeno quello. Ma era normale lavorare così, visto il tipo di lavoro. Quindi no, non ho «dipinto», ho solo cercato di limitare i danni.
Se c’è però qualcosa che si avvicina al fumetto è il ritmo del film, la sua scrittura e il montaggio, il modo in cui la storia si sviluppa.
C’è una differenza allora tra pennello e cinepresa? Te lo chiedo perché mi viene in mente che il cineasta francese Alexandre Astruc, esponente della Nouvelle Vague negli anni sessanta, aveva affermato che per lui la cinepresa era la sua penna…
Se con penna intendeva la scrittura, il ritmo e lo sguardo sulle cose, sono assolutamente d’accordo! Anzi, diciamo «sono d’accordo in ginocchio» visto che di sicuro lui era un grande e io non sono nessuno. Per quanto riguarda la pittura, qui non si poteva dare spazio all’estetica per l’estetica, ma i dialoghi, di cui molti improvvisati, li sentivo molto vicini a una scrittura di getto e quindi vicino al modo di scrittura che spesso uso nel fumetto.