In un programma ricco di buoni film, quello di cui tutti parlano viene dalla sezione «Back to Life» (Ritorno alla vita) ovvero dai film restaurati: Il Nero, scritto e diretto da Giovanni Vento, presentato a Berlino nel 1967 ma mai uscito in sala. Un tesoro nascosto, questo calco napoletano della Nouvelle Vague, che racconta i cosiddetti «figli della Madonna», i figli di militari americani di colore che avevano messo incinta ragazze del luogo. Restaurato in digitale dal Museo del Cinema di Torino ha recuperato uno splendido bianco e nero, cristallino, e il suo look anni Sessanta, tra Prima della Rivoluzione, I pugni in tasca e l’Orestiade africana: il vero periodo d’oro del cinema italiano, che era sessantottino ben prima della data fatidica.

Il recupero del film nasce da una triangolazione perfetta tra Emilia Vento, figlia del regista, che si è portata dietro l’ingombrante pellicola a 35 mm in tutti i suoi traslochi e l’ha donata al Museo di Torino, nelle mani dell’allora direttore Sergio Toffetti, con il supporto scientifico di Leonardo De Franceschi di Roma 3, che sta scrivendo un libro su Vento.

Il film racconta una realtà di cui poco si è parlato, tranne che in Tammuriata nera, di questi ragazzi e ragazze che si pensava addirittura di far adottare negli Stati Uniti, corpi estranei che proponevano una questione razziale di cui non si voleva proprio parlare, tra sensi di colpa colonialisti e tracce dei mercimoni ai quali la guerra aveva costretto la popolazione, abbandonata a se stessa. Un tema politico, ma questo non deve stupire perché Vento era critico cinematografico (ha scritto anche un Cinema e Resistenza assieme a Massimo Mida), tra i collaboratori di Filmcritica, Cinema Nuovo e tra i fondatori di Cinema Sessanta. Al suo attivo, oltre a questo film, una collaborazione con Lizzani e 13 documentari che a questo punto ci piacerebbe davvero veder restaurati.
Non si pensi però a un tardo neorealismo, coi ragazzini cenciosi dei quartieri; Vento racconta una Napoli moderna, che potrebbe essere Milano se certi scorci e la passeggiata in via Caracciolo, oltre che la vicenda stessa, non rivelassero la location.

Girato tra l’autunno del 1965 e la primavera del 1966, racconta una generazione che non sembra soffrire di particolari problemi di integrazione. Moderna, caleidoscopica, jazzata come le bellissime musiche di Piero Umiliani, con Gato Barbieri al sax, la storia è frammentaria ma non slegata, e si concentra su due figli della borghesia napoletana, interpretati da attori non professionisti, perfetti nella loro naturalezza. I ragazzi frequentano locali dove si suona jazz, mangiano in self-service moderni e alienanti, non in folcloristiche pizzerie, si occupano di fotografia, ritraendo belle donne mezzo spogliate e firmano assegni in bianco per comprarsi il macchinone per portare in giro la ragazza, come dei Belmondo scuri di pelle.

Le loro storie familiari non vengono raccontate, ma i genitori sono interpretati da ottimi professionisti come Andrea Checchi, dentista e e attento lettore di quotidiani, e la madre Regina Bianchi, sempre curata nelle sue vestaglie anni Sessanta. Nel finale l’identità nazionale dei ragazzi scuri di pelle viene dichiarata nella visita di leva che, contrariamente a quel che ci si aspettarebbe non critica la divisa, ma la propone come conquista di un posto nella nazione. La scena richiama una delle digressioni al cimitero militare di Cassino dove sono sepolti i militari dell’esercito alleato, tutti sui vent’anni, lapidi bianche uguali e ordinate, pacificate quanto tristi, nel luogo dove forse morì il padre di uno dei ragazzi. Un’eredità che cambia divisa.

Tra Nouvelle Vague, Cassavetes, cinema verité, questo incantevole film spiazza proprio perché è incredibile come la censura di mercato abbia escluso un prodotto così valido e dal gusto internazionale.