In un libro dal titolo Giovanni Marini, il poeta degli anni di piombo (pp.238, euro 16) con l’ottima cura di Silvio Masullo in collaborazione con Lucia Cariello, la casa editrice Kimerik ha pubblicato molta della produzione in versi del poeta che va dal libro E noi folli e giusti (premio Viareggio ’75, editato a suo tempo da Marsilio e prefato da Dario Fo) a molte poesie recuperate da volumi e importanti riviste quali l’immaginazione.

IL LIBRO si avvale di un puntuale apparato biobliografico e critico e di una vasta storiografia che va dal ‘67 al 2014 riguardante non solo i fatti politico-sociali che coinvolsero Marini ma anche quelli dell’intera comunità nazionale; nel finale poi si trova una significativa intervista dello stesso rilasciata nel ‘93 alla rivista milanese Artecultura. È forse vero che un poeta può sempre esser misurato attraverso la sua biografia? Sempre la biografia interviene ed influenza l’opera? Giovanni Marini, ricordiamolo, uno degli anarchici più attivi e in vista nei difficili anni di piombo, si macchiò con l’uccisione di Carlo Falvella di un fatto di sangue molto grave, per questo dal ’72 scontò molti anni della sua vita nelle carceri italiane.

IN QUESTO CASO, la vita intesa come un sistema ideale da attuare, non può essere scissa dall’opera, perché anche laddove nella prima parte della raccolta il versante lirico prevale su quello diremmo più strettamente civile con evidenze chiare, come l’immersione negli elementi naturali primigeni e puri non toccati dalle sovrastrutture produttive, la natura è come declinante quasi simbioticamente con l’uomo di quegli anni e con la contorta via al benessere che si stava costruendo: «se vuoi l’ora senza orologio,/se vuoi i boschi, i colli, la sabbia/e il vento,/vieni con me». E Giovanni Marini dovette fare i conti e non poco con la sua figura pubblica costruita ad hoc da molti giornali e media a seguito della carcerazione, per affrancarsi e reclamare una sua identità poetica; così nel ‘75 si aggiudicò il premio Viareggio opera prima, assieme ad un grande del novecento Leonardo Sinisgalli, la giuria era composta da intellettuali e scrittori di primissimo ordine quali Giorgio Caproni, Carlo Bo, Cesare Zavattini, Anna Banti.

E A RILEGGERE dopo tanto l’opera di Marini gran cultore e studioso anche di Marcuse, Proudhon, stupisce ancora per la sua vitalità linguistica e pulsione ideale, laddove appunto l’idealità è sempre così a stretto giro nelle pagine con le cose della vita, quasi non voglia mai prendere sembianza ideologica, per meglio abbracciare il qui e l’ora di un tempo che doveva essere cambiato.

LE POESIE DAL CARCERE poi sono un manuale chiaro, nitido, su come almeno in quegli anni il concetto di rieducazione del detenuto era lettera morta non solo perché vi erano strumenti davvero spuntati per rieducare ma anche perché «rieducare» in gergo voleva significare riallinearsi all’ordine borghese e certo oggi a rileggere quei versi di lotta di classe in cui: «i cadaveri veri usciti dalla folla borghese» sono più morti dei carcerati, torniamo a riflettere non solo sulla questione ideologica forte di quegli anni, ma anche sull’anarchismo che era più a sinistra del Pci stesso, responsabile secondo Marini già nel ‘69 di non tutelare adeguatamente le classi sottoproletarie, i malati mentali e di non dialogare col movimento studentesco. Sembra che siano passate ère dal libro E noi folli e giusti rispetto a un oggi globalizzato, che riduce ogni diversità e quindi la vera libertà.

MARINI ci torna a parlare non solo di una società insanguinata, spaccata ideologicamente ma anche del baratro esistenziale degli individui detenuti: «È una vertigine d’uomo costretto in un nodo di sogni che/si son fermati: prigionieri di uno stesso giorno eguale a mesi/ ad anni/come un filmino a ripetizione». Ecco quindi affacciarsi dal carcere un coro di voci lacerate, ricche di destino e umanità, uomini semplici, figli di un popolo minore; e a tutt’oggi la restiuzione poetica delle loro sofferenze collettive è così viva e drammatica che quasi quei fatti non sono passibili di storicizzazione, camminano negli occhi ancora qui e ora. Giovanni Marini e la sua persona certo si sono prestati a una eclisse in questi anni seguita alla morte nel 2001 ma siamo davvero certi di ciò?

RILEGGIAMO IL POETA di E noi folli e giusti, fa capolino ancora da questo libro più vivo che mai, col suo fremito libertario e di giustizia per gli ultimi, in questo tempo ancora profondamente ingiusto; e sembra congedarsi con una poesia tra le più belle su un bambino, forse da lì sembra dirci Giovanni Marini, da quell’ascolto degli innocenti e dei puri dobbiamo ripartire per rifondare una nuova idea di comunità: «grazie salutaci dalla culla una nostra manina/tue lacrime spesso cadute a terra gli occhi belli/guardanti più in alto delle montagne/più oltre gli oceani//aiuta noi vecchissimi/ a ricamminare».