Di Giovanni Maderna si può dire ancora oggi che è un regista «apolide». La definizione può sembrare forse desueta ma racconta bene il suo «nomadismo», e non solo perché da qualche anno vive a Londra, e la città in cui è nato, Milano (nel 1973) l’ha lasciata da tempo. È che nei suoi film Maderna ha continuato un movimento incessante, formale e narrativo seguendo la passione, il desiderio, la necessità di mettersi in gioco quasi ricominciando ogni volta daccapo. In fondo uno come lui che giovanissimo viene premiato da Nanni Moretti al suo Sacher festival – La Place, 1995 – e poi consacrato enfant prodige di un nuovo (possibile) cinema italiano con Questo è il giardino (1999) Leone del futuro alla Mostra di Venezia, poteva proseguire sulla stessa strada: ripetere con qualche variazione le sue storie, mantenere il punto sui suoi soggetti complessi, stratificati che in scelte e rapporti interrogano l’irrequietezza dello stare al mondo, l’anima, la spiritualità. E grazie allo sguardo da regista sublime proseguire con calma, senza sussulti, magari smussando un po’.

INVECE si è avventurato su altre strade (impervie), che legano il cinema alla vita per esplorare da nuovi e inediti punti di vista le immagini, il mondo, sé stesso, il proprio gesto di filmare. E ogni passaggio è più spericolato, ancora più radicale, lontano dalle «abitudini» del cinema italiano, non classificabile in un genere o nelle sue variazioni. Da L’amore imperfetto (2001) – presentato anch’esso a Venezia – a Schopenhauer (2006), ovvero il sentimento millenario della contemporaneità; e Cielo senza terra (2010), codiretto insieme a Sara Pozzoli, dove una lunga passeggiata di Maderna insieme al figlio in montagna racchiude la la realtà e l’umano. Fino a LLL – Look Love Lost (2012), archivi intimi nel quotidiano sempre girovagando – siamo a Londra – o il progetto del «Cinema Corsaro», un «oggetto» stranissimo in cui si incontrano sensibilità e modi (cinematografici) italiani eccentrici – Mauro Santini con cui firma Carmela salvata dai filibustieri, Tonino De Bernardi, Giovanni Cioni (era stato presentato alle Giornate degli autori – Venice Days, 2012).

Poi un silenzio che ora e finalmente si è interrotto con questo The Walk, ispirato a La passeggiata di Robert Walser, e ambientato a Roma oggi – set al tempo della pandemia – in una strana atemporalità. Un’altra scommessa sin dalla scelta di girarlo in 16 millimetri e in tempo reale – 2 ore – seguendo le peregrinazioni attraverso la città eterna del protagonista, Lino Musella, tra incontri, scoperte, epifanie, riflessioni.
Nel cast ci sono Ondina Quadri, Michael Hoffman, Uberto Pasolini, Stanley Schtinter (producono la EL Entertainment dello stesso Maderna e Mike Elliott per Emu Films, complicità alla regia preziosa di Monica Stambrini), figure che entrano, escono, secondo una casualità e l’improvvisazione millimetrata della sua regia. Ci siamo incontrati a Roma prima delle riprese, una giornata di ottobre. «Dodici kili di 16 millimetri è anche un grosso sforzo fisico ma Robbie Ryan, il direttore della fotografia, ha una formazione da danzatore. E l’idea di queste riprese rimanda al teatro, alla perfomance: ci si ferma solo per cambiare i rulli, è un po’ un esperimento di ’broken cinema’» dice Maderna.

Perché «La passeggiata»?
È un testo meraviglioso, un capolavoro sulla dimensione interiore del viaggio. Camminare diviene una metafora del piacere di scrivere come per me seguire qualcuno che cammina con la macchina da presa lo è del filmare. Era da otto anni che non giravo un film, se non cose piccole o private, per tutto questo tempo ho lavorato a due progetti, uno era arrivato al casting ricevendo anche il supporto per lo sviluppo dal Bfi. Entrambi però sono rimasti impigliati nella burocrazia dei finanziamenti, tra rinvii e difficoltà delle coproduzioni in Inghilterra e in Italia. Nel frattempo avevo conosciuto Lino Musella, e ho proposto al mio produttore un progetto con questo grande attore. Ero a Roma in quel momento e ogni mattina facevo un passeggiata seguendo un percorso; così ho deciso di ambientarlo qui sapendo che era un grande salto visto che il libro si svolge in una piccola città svizzera, ma la sua dimensione è universale, e permette di costruire delle affinità col nostro tempo. Anzi oggi ancora di più se pensiamo che è stato scritto nel 1917, e quel senso di catastrofe lo ritroviamo nelle limitazioni e negli sconvolgimenti provocati dalla pandemia.

Dicevi che seguire qualcuno che cammina esprime per te il piacere di filmare. I tuoi film negli ultimi anni sono tutti «walking cinema», personaggi/protagonisti, compreso te stesso come in« Cielo senza terra», che passeggiano a lungo.
Mi piace l’idea di scrivere col cinema senza la «protezione» della finzione, nel confronto con la realtà «bruta». È così in Cielo senza terra o in LLL dove la protagonista cammina senza parlare per tredici minuti di fila pedinata dalla macchina da presa. In questi anni mentre scrivevo i miei progetti mi sono spesso sentito chiedere: «Non succede nulla qui? E qua, non c’è azione?». Ma quando mostravo le cose non le trovavano mai noiose: c’era un momento di cinema, ed è lì che ti senti vivo. Lavorare con la scrittura aiuta a superare alcuni ostacoli, ora ho imparato e so che è importante ma so anche che preferisco scrivere filmando. È il solo modo per rendermi conto se c’è qualcosa che ti tiene col fiato sospeso, che non è semplicemente una serie di eventi già previsti nella sceneggiatura. L’atto di camminare permette tutto questo, come nella vita è l’unica forma di spostamento autonomo. Walser lavora in modo sofisticato sul confine tra spazio interiore e esteriore con l’ambizione di catturare quello che accade intorno a sé e trasportarlo nella sua scrittura. Questo è anche il confine su cui si muove il film: gli attori improvvisano senza una rete – pure se sulla base della sceneggiatura – in tempo reale e in posti reali.

 

La scelta della pellicola?

Si lega alla stessa immediatezza, alla ricerca dell’istante nella relazione tra i personaggi e il mondo. Sentivo il bisogno di una nuova sfida in un dialogo col cinema che non esiste più. Girare in pellicola ma «broken», a pezzi, è come fare una statua e poi buttarla giù da tre piani. Mi piace questa dimensione dell’immagine lontana dalla tecnica, e più in generale da un protocollo del cinema attuale in cui tutti gli oggetti del film hanno lo stesso rumore, si sono eliminati i suoni stridenti come nelle immagini a cui il digitale dà uguale compattezza le differenze di toni. Ma se esistono nella vita reale anche in una videocamera la pellicola fa dei salti di luce, e il modo in cui si lavora dà un valore alla materia di cui è fatto il cinema, non vuole addomesticare i conflitti che cattura.

Cosa è rimasto del libro di Walser nel film?
Insieme a Stanley Schtinter con cui ho scritto la sceneggiatura, lo abbiamo praticamente azzerato, ma proprio grazie ai suoi contenuti universali ci siamo potuti muovere in assoluta libertà. Seguiamo Lino che spedisce una lettera a un uomo potente, e poi continua a camminare nella città dove incontra vari personaggi, scopre la figura di Aguyar, ex schiavo che ha combattuto con Garibaldi ma che a differenza degli altri non ha una statua al Gianicolo. Robert/Roberto – questo il nome del personaggio di Musella – parla inglese un po’ in rivolta contro il suo essere italiano, e inventa. è anche il nostro gioco, mio e di Lino, al di là che la sceneggiatura è stata scritta in inglese, e forse riflette un po’ la mia sensazione di estraneità rispetto al Paese in cui sono nato: in fondo i luoghi dove Lino cammina sono i miei.