Giancarlo, alias Giovanni, visto che lo chiamavano tutti così dagli amici alla sua stessa famiglia, lo avevo visto l’ultima volta all’inizio del 2012. Io in procinto di partire per l’Afghanistan, lui per il Pakistan. Io alle prese con la camorra, la scrittura del mio primo libro, lui appena rientrato dal Natale a Palermo, l’ultimo della sua vita trascorso in famiglia.

Giancarlo è sempre stato un ragazzo colto, sensibile ed educato, solare e sorridente, felice e soddisfatto della propria vita, di quelle che si lamentano poco, mai senza una ragione precisa e importante. Sulla quale puoi sempre contare. Un giovane dalla mente aperta, curioso e altruista. In questi tre anni dedicavo a lui tutti gli interventi che mi chiamavano a fare in giro per l’Italia sul tema della guerra.

Lo avevo conosciuto nei primi anni Duemila in Sicilia, quando ancora stava progettando il futuro altrove, prima che abbandonasse l’isola per andare a studiare a Londra, città nella quale ci eravamo poi rivisti. In Inghilterra aveva frequentato un corso di studi su conflitti e processi di pace alla London Metropolitan University, dove si era laureato nel 2010. Il suo grande sogno, del resto, era quello di costruire la pace tra i popoli.

In questo senso, altro punto in comune, potremmo definirlo un idealista. Anche se sempre coi piedi per terra. Non era uno sprovveduto o un avventuriero, in quanto, muovendo i suoi primi passi nel volontariato, in pochi anni era diventato un giovane coraggioso e appassionato cooperante italiano di grande esperienza.

Dall’Europa all’Asia, passando per l’Africa e l’America Centrale, sempre pronto a sedersi coi bambini più sfortunati sui banchi di scuola, oppure a spalare fango, cercando di recuperare quel poco che era rimasto a gente che non aveva mai visto prima. Perché le sue vere passioni erano viaggiare per andare ad aiutare gli altri.

Il suo primo viaggio lo aveva fatto ancor prima di laurearsi, nel 2005, come volontario della Croce Rossa in Pakistan. Di questa nazione dell’Asia si era innamorato.

Subito dopo la laurea, aveva iniziato a occuparsi di cooperazione con il Gvc (Gruppo volontario civile di Bologna), ma anche con il Coopi (Cooperazione Internazionale) nella Repubblica Centroafricana e ad Haiti. Per poi tornare in Pakistan per il Cesvi (acronino di Cooperazione e Sviluppo), una onlus laica e indipendente di Bergamo, diventata oggi una fondazione di partecipazione.

Nel 2012 era infine tornato in Pakistan per la ong Welt Hunger Hilfe (Aiuto alla fame nel mondo), un’organizzazione umanitaria privata, senza scopo di lucro, laica e politicamente indipendente con sede a Bonn. Per loro si occupava della costruzione di alloggi di emergenza nel sud del Punjab, un progetto finanziato dall’Unione Europea per portare aiuto alle famiglie colpite, tra 2010 e 2011, dal terremoto e dalle alluvioni nella zona di Kot Addu che hanno provocato diverse migliaia di morti, oltre 14 milioni di sfollati e milioni di case distrutte.

Anche allora era contentissimo di essere tornato in quell’area al confine con l’Afghanistan e di essere a suo dire riuscito a stabilire un ottimo rapporto con la popolazione locale. Del resto Giancarlo amava la gente, la cultura e il cibo di questa martoriata ma affascinante parte dell’Asia Centrale.

Quel maledetto 19 gennaio 2012, quando un commando armato lo porta via assieme al suo collega tedesco Bernd Muehlenbeck (59 anni), era arrivato da pochi giorni nel Paese. Da allora cala un’imbarazzante silenzio. Rotto soltanto nel dicembre 2012, quando il suo compagno di sventura appare in un drammatico quanto breve video.

Da allora più nulla. Persino agli amici è stato proibito di parlare con la stampa, di organizzare una giornata «per non dimenticare» con una fiaccolata già prevista a Roma e poi annullata, di tenere un basso profilo di Facebook (tanto che le due pagine dedicate a Giovanni diventano dei gruppi chiusi). Fino all’ottobre del 2014, quando Muehlenbeck viene liberato in una moschea alla periferia di Kabul. Al rientro in patria, raccontato che già da un anno i sequestratori avevano spostato Lo Porto.

Forse rivendendolo a qualche altra formazione jihadista. Arriviamo così a giovedì, quando persino la mamma Giusy apprende come tutti noi la drammatica notizia della morte del figlio dai telegiornali. Dal giorno del rapimento era cambiata, povera donna. Parlava poco, era dimagrita, divorata dall’angoscia quotidiana per la sorte di Giancarlo.

Dal 2012 lamentava il vuoto informativo. L’assenza di notizie. La Farnesina, con un funzionario e uno psicologo, è arrivata soltanto ora nell’abitazione dei Lo Porto a Palermo, al piano rialzato di via Pecori Giraldi, allo Sperone, nel quartiere Brancaccio.

Assieme alla mamma Giusy, che oggi ovviamente non vuole parlare, chiusa nel suo dolore, ci sono i fratelli Giuseppe e Nino, ma anche Daniele, che abita a Pistoia con la propria famiglia, città toscana nella quale vive anche il padre (i genitori hanno divorziato quando ci siamo conosciuti nei primi anni Duemila) e infine Marcello, quello che ha pagato di più l’essere cresciuto in quartiere difficile come Brancaccio a Palermo.