Quando gli agenti fecero irruzione nella villetta di Agrigento dove stava trascorrendo la sua latitanza, Giovanni Brusca stava guardando un film sulla strage di Capaci. Fu arrestato il 20 maggio ’96, quattro anni dopo «l’attentatuni»: fu proprio lui, era il 23 maggio ’92, ad azionare il detonatore che fece saltare in aria, lungo l’autostrada, le auto di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta. Dal suo arresto sono passati 23 anni; l’ex capomafia di San Giuseppe Jato, che ha evitato diversi ergastoli collaborando con la giustizia, adesso, dopo 23 anni potrebbe lasciare il carcere. La decisione è attesa oggi. I giudici della Corte di Cassazione si pronunceranno sulla richiesta dei domiciliari da scontare in una località protetta, depositata dagli avvocati di Brusca.

A DARE PARERE POSITIVO sono stati il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, la direzione del carcere di Rebibbia e le autorità di pubblica sicurezza di Palermo. Non è di quest’avviso invece il procuratore generale della Cassazione che ieri si è opposto alla richiesta. I difensori hanno fatto ricorso all’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che lo scorso aprile, per la seconda volta (il primo no due anni fa), aveva respinto la domanda della detenzione domiciliare.

Per il Riesame, pur avendo fatto una revisione critica delle sue azioni criminali, Brusca «non ha compiuto quel percorso diretto alla manifestazione di un vero e proprio pentimento civile che è necessario per poter godere della detenzione domiciliare». «Nonostante abbia compiuto sforzo per chieder scusa alle vittime – spiegano – non ha ancora percorso il cammino dell’emenda verso di loro, mostrando ancora di non serbare nessun interesse a risarcirle anche simbolicamente». L’ex boss, sottolineano i giudici, si è giustificato sostenendo di non voler mortificare le vittime chiedendo loro scusa. Una motivazione che adduce un pudore «non credibile per chi si è macchiato di efferati delitti tra cui l’uccisione di bambini e che ha mietuto vittime in modo indiscriminato».

I magistrati ammettono il percorso compiuto in carcere dall’ex padrino, in contatto con un’associazione antimafia e che nei colloqui con la psicologa «si sofferma sui propri misfatti senza riluttanza, rigetta letture giustificazioniste» definendo Cosa nostra «lurida e schifosa», tuttavia visto l’eccezionale spessore criminale, «il numero rilevantissimo di omicidi commessi», per avere gli arresti domiciliari non basta un mero ravvedimento ma serve «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile». Ed evidenziano che a proposito dei contatti dell’ex boss con le vittime della mafia «risulta solo l’incontro con Rita Borsellino, avvenuto su iniziativa di quest’ultima» e che non vi è stata però una richiesta di perdono né a lei né ai suoi familiari».

SOPRANNOMINATO «u verru» (maiale) e scannacristiani, Giovanni Brusca, figlio di Bernardo, è cresciuto a “pane e mafia”. Lui stesso si è raccontato così: «Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo che aveva 13 anni quando fu rapito e 15 quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre 150 delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento».

Dal 2004, Brusca gode di permessi periodici per buona condotta. Nel 2010 riceve in carcere un’accusa di riciclaggio, di intestazione fittizia di beni e di tentativo di estorsione. Cinque anni dopo i giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, accogliendo la richiesta della Procura distrettuale, disposero il sequestro di beni intestati ai prestanome del pentito ma a lui finanziariamente riconducibili. Durate una perquisizione in casa della moglie furono trovati 190 mila euro. Nel 2016 il reato di estorsione venne derubricato in tentativo di violenza privata, mentre la questione relativa all’intestazione fittizia di beni fu prescritta e all’ex boss furono restituiti 200 mila euro che gli erano stati sequestrati.

IN CARCERE O A CASA, Brusca terminerà di scontare la sua pena nel 2022 ma potrebbe tornare libero alla fine del 2021 perché ha uno “sconto” di 270 giorni come previsto dal regolamento carcerario. Per Maria Falcone, sorella del giudice ucciso a Capaci, «il suo passato criminale, l’efferatezza, la spietatezza delle sue condotte e il controverso percorso nel collaborare con la giustizia lo rendono un personaggio ancora ambiguo e non meritevole di ulteriori benefici».