«Il centro dell’analisi da questo punto di vista diventa il confine etnico che definisce il gruppo, non la materia culturale che include. I confini a cui dobbiamo prestare attenzione sono ovviamente confini sociali, sebbene essi abbiano controparti territoriali. […] I gruppi etnici non sono semplicemente o necessariamente basati sull’occupazione di territori esclusivi; e i modi differenti nei quali questi sono mantenuti […] necessitano di essere analizzati.» Così l’antropologo norvegese Fredrik Barth, nell’introduzione di uno dei suoi libri più importanti, un classico: Ethnic Groups and Boundaries (la traduzione del passaggio è del sottoscritto).

Ora, perché tale rimando? Perché mi sembra possa offrire una base teorica valida per introdurre l’argomento di un libro uscito di recente: Cipro, nella sua divisione tra parte greca e parte turca.

Il titolo in questione è Foxtrot Gate, Cyprus (Mousse Publishing, 22 euro) e l’autrice è la fotografa Giovanna Silva, mente e corpo a cui si deve anche la presenza, oggi, di una splendida casa editrice di base a Milano, Humboldt Books, essendone ideatrice e direttrice.

Foxtrot Gate, Cyprus è poi la terza pubblicazione di una serie che Silva, sempre per Mousse Publishing, sta dedicando come fotografa a Paesi in situazione di conflitto in questi ultimi anni, dopo i lavori su Baghdad (2012) e la Libia (2013). Si tratta di un progetto diverso dagli altri due – ognuno è una creazione a sé, con motivazioni diverse alla base – e che però mi sembra possa testimoniare una gran bella evoluzione del tipo di operazione compiuta dall’autrice tramite queste uscite: verso una idea di narrazione complessa della Storia (per temi e struttura), dove l’eterogeneità delle fonti utilizzate trova, qui, una sintesi ammirevole. Ma non solo.

A partire – forse – dall’intersezione di tre possibili tracce.

La fotografia è riscrittura

Come si presenta Foxtrot Gate, Cyprus?

Abbiamo due libri formato quaderni, A4, perfettamente uguali, ma la cui unica differenza è il colore di copertina e quarta: uno è blu, l’altro è rosso – un rimando alla dualità dell’isola, con le tonalità dominanti greca e turca, ma se si vuole leggibile anche, letteralmente, come dualità soltanto apparente (i libri, come detto, sono in sostanza uguali).

Dentro, la suddivisione è in tre parti. Come introduzione, una riproduzione di un documento delle Nazioni Unite (UN RESTRICTED), testo letto dai soldati alla persone da loro accompagnate in visita nella linea verde dell’isola e relativo alla mappatura storica e spaziale di tale area, che ricordiamo è la zona cuscinetto che divide in due Cipro (Foxtrot Gate è il nome del principale checkpoint ONU presente, vicino al campus dell’Università di Nicosia). Poi tre testi in inglese di autori ciprioti (su carta azzurra nel volume con copertina rossa; su carta rossa in quello con copertina blu): l’antropologo Yannis Papadakis, con un saggio che ripercorre la storia di Nicosia dopo il 1960; Konstantina Zanou, con una riflessione personale sulla buffer zone di Nicosia e Giorgos Charalambous, con il racconto della sua visita al dismesso aeroporto internazionale della città, situato dentro la linea verde. Infine, il photo-essay di Giovanna Silva.

Soffermiamoci ora sulla prima parte, dove c’è un intervento estremamente interessante di Silva. Il documento ONU presenta una variazione dall’originale: ci sono immagini. Sono fotografie di zone, luoghi, oggetti specifici: posizionate in modo preciso, in relazione alla loro evocazione testuale. La fotografa aggiunge dunque allo scritto la testimonianza visiva, qualcosa difficile da cogliere se non lo si sa, dal momento che l’impaginazione rende il tutto in maniera volontariamente tale da farlo sembrare una riproduzione di un ipotetico testo avente già tali foto. Come leggere questo? È chiaro, nel modo più proficuo possibile, cioè tra le righe. Specificatamente, come esercizio di riscrittura della fonte: nella misura in cui tale pratica di rielaborazione/integrazione, qui, indicherebbe mimetismo espressivo e distanza critica. Posizioni teoricamente opposte ma, come dire, liricamente affini.

Un esercizio di spaesamento

Certo, dire fotografia come riscrittura significa dare una idea di questa come narrazione particolare, dunque focalizzare l’attenzione non tanto sull’istante quanto sul continuo e il discontinuo, quindi sulla centralità del montaggio – comunque da configurare, da far muovere su una certa direzione.

Ora, soffermiamoci sulla terza parte del libro, cioè sul photo-essay, dove già la scelta del termine essay suggerisce una certa rilevanza della scrittura per lo sguardo di Silva. Qui saltano subito all’occhio due considerazioni: la prima riguarda l’assenza significativa di didascalie (sono tutte nell’indice); la seconda, invece, riguarda il montaggio e il formato delle singole immagini (la loro collocazione sulla pagina varia di numero e grandezza). Il tutto restituisce un ritmo totalmente visivo e assolutamente irregolare che giocoforza rimanda all’osservazione di quanto documentato. Quindi, cosa ci mostra la fotografa?

Nello scorrere le pagine, le immagini raccolte e selezionate accompagnano lo sguardo verso una scorribanda attraverso spazi e luoghi per lo più desolati – associati alle volte per morfologie simili, altre volte per tonalità dominanti, altre ancora per continuità visiva – dove la presenza di edifici e oggetti è centrale. E dove l’uomo è per lo più assente, oppure una lontana o anonima figura nello spazio (l’unica eccezione, i militari: le immagini a loro dedicate ne mostrano tutto il peso, singolarmente e come corpo).

Però, su tutto, l’annotazione da fare è ancora tra le righe e riguarderebbe come la sequenza visiva di Silva – nel suo scorrere, nel libro – offra una propria risposta in termini di posizionealla questione cipriota: una nuova mappatura, una riscrittura. Dati l’inizio e la fine (una cartina di Cipro e la scritta EmergencyExit, dopo – appunto – il documento ONU e i tre testi; l’aeroporto dismesso, allusione alla fine del viaggio e ritorno nella linea verde), il photo-essay condurrebbe lo sguardo in fondo a una sorta di spaesamento culturale, dove parte greca e parte turca non possono che visivamente con-fondersi e dove, se si deve dare una divisione, l’unica concepibile per la fotografa sembrerebbe quella tra dentro e fuori il confine ONU.

La fotografia e l’osservazione partecipante

Per chi, qui, scrive, questo è alla fine un libro di Storia contemporanea. C’è tutto: documentazione, analisi, osservazione. Però come se fosse un libro d’artista, quindi a partire da una centralità del piano visivo. Contraddizione in termini? Direi di no, nella misura in cui la forma libro, per Silva, assume il senso di una forma mentis attraverso cui pensare e attuare l’operazione e, più in generale, il proprio lavoro (fotografico). Ma c’è di più, perché tale polimorfismo – in fondo – non farebbe altro che ricondurci allo costruzione culturale dello sguardo della fotografa. Pensiamo al riguardo al già menzionato uso delle fonti. Per come è impostato e realizzato il progetto, la posizione che l’autrice idealmente assumerebbe in relazione alla materia trattata condurrebbe a una sorta di rivisitazione estetica di una delle basi della metodologia antropologica: l’osservazione partecipante, per cui vedere – a un certo punto – diventa interagire. Un posizione al limite. E quindi, in questo caso, Foxtrot Gate, Cyprus si potrebbe leggere come un tentativo di restituire uno sguardo su Cipro attraverso una riscrittura di determinati elementi interni alla sua rappresentazione.

Un genio una volta ha detto: «Non si può fare della letteratura con la letteratura, non si può fare della musica con la musica, non si può fare del cinema col cinema […]. Bisogna fare altro.» Di fronte a questo libro, in fondo, io non so dire esattamente dove finisca Giovanna Silva come fotografa e inizi – magari – il saper fare dell’editrice, oppure la passione da antropologa…

Ma la sua intelligenza e bravura sono così esemplari da lasciar spazio a tutto.