L’incontro tra due anime è al centro del film di Giandomenico Curi, regista che ha accompagnato Giovanna Marini nel suo rinnovato viaggio di ricerca sonora nel cuore del Salento. A sud della musica – la voce libera di Giovanna Marini è un viaggio di andata e ritorno alla scoperta dell’anima del sud Italia, della sua voce e storia che da più di cinquant’anni la compositrice romana percorre instancabilmente. Il film, prodotto dal collettivo Meditfilm, sarà presentato il 30 ottobre all’Auditorium Parco della musica di Roma, prima di raggiungere le sale cinematografiche.

Com’è avvenuto l’incontro con la musica tradizionale salentina e soprattutto con Giovanna Marini?
Per chi si occupa di musica popolare, l’incontro con il Salento e le sue tradizioni è quasi inevitabile. Credo che sia una delle zone più ricche d’Italia con una qualità e quantità di repertori incredibile. C’è anche una tradizione vecchia risalente agli anni ’70: si facevano delle spedizioni in Salento, dove si cercavano le nuove forme di musica popolare e la rinascita, il revival della musica tradizionale salentina. C’è stato un periodo, subito dopo il dopoguerra, in cui tutta la musica del sud dell’Italia è stata messa da parte perché ricordava un periodo brutto: la povertà, la fame e la guerra. Era legata a una tradizione che era stata abbandonata. Chi era emigrato al nord e ritornava nella propria terra, non voleva sentire queste canzoni; ricordavano un altro mondo, un’altra vita. Molto spesso i portatori di questa tradizione rifiutavano di farsi intervistare, di parlare con i ricercatori, oppure proponevano di cantare altre canzoni come quelle di Sanremo sicuramente più allegre e comprensibili. Dietro questi canti c’è una storia sociale molto interessante e da un punto di vista musicale delle armonie diverse come nelle canzoni polifoniche a più voci. Poi c’è tutta la tradizione che arriva dall’oriente, dalla Grecia, come nella Grecìa salentina, una zona della penisola dove si parla ancora il grico, cioè il greco antico. Tutti questi motivi hanno spinto anche Giovanna a recarsi nel sud della Puglia. Conoscevo Giovanna già dagli anni ’70, era una delle fondatrici della Scuola di musica popolare di Testaccio e per noi studentelli che ci occupavamo di questo tipo di musica, conoscerla era inevitabile. Il fermento di quel periodo per la musica popolare e per quella jazz, era legato alla sua figura che, oltre ad avere questa dimensione di cantante popolare, era sempre presente nelle dimostrazioni di canto politico vero e proprio: nelle manifestazioni del PCI, di San Giovanni e nel circuito alternativo della musica che non passava nei teatri, ma nelle case del popolo e nelle case occupate. Credo che Giovanna sia un monumento della musica italiana, una delle persone più straordinarie ancora in vita.

Nei suoi lavori c’è un’attenzione particolare per il mondo della musica leggera e popolare qual è la linea di ricerca che lei porta avanti?
La radio è una vecchia passione legata agli anni ’70 – ’80. Poi c’è stato un periodo nella televisione legato a Rai3 con il programma “La storia siamo noi” con un’attenzione alla storia locale e sociale. Mi sono occupato soprattutto di tanta musica e sono scisso in due parti tra la musica popolare di tradizione e quella rock. È difficile individuare un filone ben preciso, quello che cerco è una musica non allineata e più eversiva, una musica che abbia a che fare con la realtà, nel senso che sia legata alle persone. Come disse Giovanna tornando dalla sua prima spedizione nel Salento, a cavallo degli anni ’60 e ’70, “sono andata a cercare i suoni e le canzoni e ho trovato le persone”.

Che cosa caratterizza la ricerca di Giovanna Marini?

Nel Salento sono andati tutti e ognuno ha fatto la sua ricerca: Carpitella, Giovanni Bosio, gli americani; lei però non va a fare l’etnologa, ma cerca e incontra le persone per fare una sua esperienza di vita. Se si ascoltano le sue registrazioni, si nota che parla con le persone dei loro problemi, cantano insieme e non fa mai la registrazione scientifica da portare in archivio. Tutto il materiale che registra lo utilizza per se stessa, per conoscere e per cantare: trascrive, analizza, lo porta a scuola e diventa uno strumento di lavoro e di conoscenza fondamentale. Una caratteristica importante della ricerca di Giovanna è il lavoro estremo che fa sulle canzoni. Si rende conto che i testi, presi così come sono, oggi non hanno molto senso come non ha molto senso cantarli come i cantanti salentini. Non fa una fotocopia della canzone ma cerca gli elementi più diversi, non scontati ed eversivi sia a livello della musica sia a livello del testo e gli esalta. L’album Il Salento di Giovanna Marini è composto da due dischi: nel primo sono raccolti le canzoni tradizionali così come le ha ascoltate dalle sorelle Chiriacò; il secondo disco, invece, è come lei ha interpretato quelle canzoni. La dimensione più interessante che lei trova è legata all’uso della voce, cioè il modo di dilatare la voce. C’è una canzone d’amore e di morte famosissima in Salento, “Il povero Antonuccio”, che Giovanna trasforma in un lamento funebre con uno «svolo» della voce, come lo definisce lei, altissimo: un pianto che si trasforma in un lamento e poi in un’incazzatura. Ecco la bravura di Giovanna che la rende unica: cercare in questi materiali elementi nuovi e di sperimentazione senza mai perdere di vista la loro forza politica, cioè la scelta estetica e quella politica coincidono perfettamente.

Nel film c’è anche un riferimento alla figura di Pasolini.

Giovanna è molto legata a Pasolini, da lui ha appreso l’importanza del dialetto come tesoro da tutelare e come trasformare in arte le questioni sociali. Nel film, infatti, abbiamo affrontato la questione politica del meridione attraverso una canzone straordinaria scritta da Giovanna, “I treni di Reggio Calabria”. Giovanna ha fatto più di un disco con le poesie in friulano di Pasolini, ha composto le musiche per alcuni suoi film e scritto delle opere in sua memoria, l’ultima è del 2015 per i quarantanni dalla morte del regista. E senza farlo a posta, abbiamo ritrovato Pasolini anche nel Salento, in un piccolo museo di cultura greca, dove durante i sopralluoghi ci è stato mostrato un album di fotografie dello scrittore in viaggio nel Salento. Ci è stato raccontato che Pasolini, una settimana prima di morire, era stato a Lecce per un convegno sulla musica tradizionale salentina e poi a Calimera per ascoltare i canti della tradizione grica tra cui i canti di morte. Si dice che questi canti devono essere eseguiti solo alla presenza dei morti e chi li ascolta al di fuori della loro funzione, da lì a poco tempo muore.