Un nome caro alle femministe italiane per aver realizzato uno dei primi film che iniziava ad esplorare tematiche sconosciute è quello di Giovanna Gagliardo di Maternale e poi di documentari di approfondimento illuminante come Bellissime. È stato anche intelletuale fondamentale nella filmografia e nella vita di Miklos Jancso il grande regista ungherese scomparso nel 2014 a cui Bergamo Film Meeting dedica quest’anno la personale. Il grande manovratore di truppe, ilmanovratore del piano sequenza di film come I disperati di Sandor, L’armata a cavallo, Venti lucenti arrivato in Italia alla fine degli anni sessanta scopre attraverso la stretta collaborazione con Giovanna Gagliardo sua compagna e sceneggiatrice dei suoi film, una prospettiva culturale del tutto nuova, passa da un paese blindato al complesso periodo dei movimenti politici: alla sua filmografia aggiungerà La Pacifista, La tecnica e il rito, Roma rivuole Cesare, Vizi privati pubbliche virtù. «Attenzione alla Pacifista, ci dice Giovanna Gagliardo, perché ci sono due versioni. Una è una versione riscritta dai distributori con Monica Vitti doppiata con una voce molto simile e lei dopo una settimana ha fermato il film. Esiste un dvd di Cinekult con «la versione originale per la prima volta in dvd» dove ci sono le due copie e un’intervista dove racconto le vicende giudiziarie del film. Si riconoscono perché in quella taroccata c’è scritto: «immagini di Miklos Jancso», non «regia di». Ai distributori il film non piaceva, lo hanno messo in circolazione e subito ritirato, hanno riscritto i dialoghi facendo una specie di commedia all’italiana (Monica aveva fatto La ragazza con la pistola, si lanciava in un’altra direzione). Per anni non si riuscì a trovare la copia originale. Quei dialoghi gridavano vendetta, hanno messo una specie di io narrante che non esiste nella versione originale
Mi sembrava interessante la contaminazione di Jancso con la commedia all’italiana. Come è avvenuto l’incontro?
Alla fine degli anni Sessanta Monica ancora non pensava a un suo futuro ruolo nella commedia. È un film fortemente voluto da Monica che però quando già si girava lei stava al doppiaggio di La ragazza con la pistola e ha avuto un po’ paura di quello che stava facendo perché le stava nascendo tra le mani inaspettatamente una nuova carriera che poi è stata brillantissima. Si è comportata sempre in maniera molto corretta e con molto rispetto, anche se aveva dei problemi sul fatto di sparare, si è messa al servizio di un grande autore. Nel mitico ’68 lei era in giuria a Cannes e vide L’armata a cavallo. Rimase scioccata, volle incontrare Jancso, aveva scoperto che Miklos era un grande estimatore di Antonioni, che aveva fatto la tesi alla scuola di cinema di Budapest sul Grido. In quegli anni io facevo la giornalista, ma scrivevo per il cinema, facevo il «negretto» per qualche sceneggiatore e avevo scritto questo soggetto per lei, perché eravamo molto amiche. È rimasto nei cassetti di Monica per un anno finché lei ha detto: «sai chi potrebbe farlo? questo genio», lo abbiamo tradotto in francese e glielo abbiamo mandato a Budapest perché lo leggesse con una lettera di Monica. Il soggetto si chiamava La vittima.
Il soggetto originale trovo che contenesse in nuce uno dei grandi temi discussi dal femminismo
Infatti l’origine era quella, ed era quello che piaceva molto a Monica. C’era quest’idea della sessualità femminile molto in nuce all’epoca e parliamo anche dei primi movimenti femministi, perché era del ’68-69 e il film lo abbiamo fatto nel ’70. Questo senso di paura nell’uscire la sera, la paura dell’aggressione.
Quindi tutta la parte dei movimenti politici l’ha inserita lui
Miklos ha mandato una risposta genericamente entusiasta a Monica senza altre entrare nel merito anche perché aveva difficoltà a muoversi. Se non aveva un invito, un viaggio pagato non poteva uscire dal paese. Un giorno la mia amica Letizia Paolozzi che era direttore responsabile della rivista di Potere Operaio voleva andare a Budapest a intervistare Lukacs. Mi dice: l’Unità vacanze organizza con 50 mila lire andata ritorno e soggiorno. Monica ha detto: vacci di corsa, mi ha dato il suo numero di telefono e siamo partite con i treni delle cooperative emiliane. Era fine ’69, siamo andate in treno fino a Vienna e poi in autobus fino a Budapest. Siamo arrivate all’hotel Szabadság che in ungherese significa Libertà. Io chiamo al numero che mi aveva procurato Monica, c’era la segreteria telefonica e lascio un messaggio, Letizia prende un appuntamento con Lukacs e il giorno dopo Miklos chiama alla segreteria dell’albergo. Non ti dico cos’era Budapest nell’inverno del ’69. Lui ha detto subito: la storia mi piace però mi piacerebbe calarla in un contesto socialpolitico del paese. Dopo ha detto che aspettava un visto perché la Rai lo aveva invitato per un progetto che non è mai andato in porto
Il Mattia Corvino…
Sì. Un paio di mesi dopo mi ha telefonato che arrivava in Italia. Monica aveva trovato due produttori, il progetto è partito e io sono stata spedita in Ungheria a lavorare con Hernadi.
Com’era Hernadi, lo scrittore che aveva sempre firmato i film di Jancso?
Parlava molto bene francese, come tutti gli intellettuali. È morto parecchi anni prima di Miklos. Era un uomo molto colto, molto mitteleuropeo, molto condiscendente, secondo me troppo nei confronti di Miklos. Come Miklos apriva bocca trovava sempre che era tutto perfetto, che è un po’ anche la deriva dei suoi ultimi film, dove si sente il dadaismo di ritorno che è l’influenza Hernadi. Un gentiluomo dell’Ottocento, molto pieno di sé per niente stupido, interessante, poco ricettivo. Aveva viaggiato pochissimo, come erano gli uomini dell’Ottocento, passava i pomeriggi nei bar degli alberghi come l’Hungaria a scrivere, ad ascoltare musica.
Ma questa deriva ottocentesca non sembrava apparteneva anche a Jancso, come mai?
Jancso era un vero artista, molto irrequieto, aveva una curiosità in più che Hernadi non aveva. Era molto più infantile, più aperto, più artista, più fragile e per questo anche molto più interessante. Aveva l’ansia di viaggiare, di conoscere, di imparare le lingue. Benché avesse cinquant’anni di metteva a parlare l’italiano. Era uno sempre pornto a cambiare. Pur essendo anche lui un archetipo di ungherese. Anzi era transilvano, lui è nato in una città che all’epoca era ungherese e adesso è rumena, era un uomo di frontiere. Per me che ho vissuto tanti anni insieme a lui, non ho mai pensato che potesse mai lasciare il suo paese, perché era talmente legato alla sua lingua, alla sua cultura, anche ai difetti del suo paese. Non avrebbe mai potuto staccarsi da quel mondo, mai. In effetti quei film della Rai che abbiamo fatto insieme, La tecnica e il rito e Roma rivuole Cesare avevano paesaggi che l’Ungheria non gli consentiva. Il mare in Ungheria non c’è, quando ha visto la Sardegna si è innamorato di questo luogo. Lo ha trasformato in un’Ungheria col mare. Facevamo i carrelli sull’acqua, era un proseguimento della puszta, come il deserto dove abbiamo girato Roma rivuole Cesare, in un villaggio al confine con la Libia, dove oggi c’è la guerra.
Credo non si possa parlare di Jancso in quegli anni senza parlare del tuo lavoro con lui, un flusso di energia e di idee. La scoperta da parte sua del femminismo ad esempio che non gli apparteneva tanto.
Non gli apparteneva per nulla. Però era curioso e negli anni Settanta quando si facevano le mitiche riunioni in cui gli uomini non potevano entrare, lui mi aspettava fuori dalla porta, cosa che faceva indignare le compagne perché correvo fuori se mi chiamava. Lui non lo faceva per una forma di controllo, ma per una sorta di curiosità, voler capire cosa ci dicevamo, cosa facevamo. Era molto femminile da questo punto di vista. Per essere uno legato così tanto al suo paese, alla sua famiglia, ha fatto delle scelte inimmaginabili, molto rischiose. C’erano venti anni di differenza tra noi e nei primi sette anni oltre che una grande storia anche una vita di formazione straordinaria. Entravo in un mondo che non conoscevo e da autodidatta come sono sempre stata, imparavo continuamente, in Ungheria conoscevo scrittori e registi che avevano problemi pur essendo un paese più tollerante di altri in quegli anni.
Tu hai imparato da lui, ma anche lui ha imparato da te.
Lui ha cominciato a frequentare i miei amici, Letizia Paolozzi, Nanni Balestrini, Moravia. Pasolini, la Betti, Liliana (Cavani ndr)- siamo stati noi a dare Lajos Balazsovitz per fare Milarepa – Era un mondo che lo affascinava, conosceva Pasolini o Bertolucci di fama, si andava a cena al Pantheon la sera come si faceva a Roma negli anni Settanta, chi c’era c’era e si restava fino alle tre di notte. Questo per lui era un mondo di pensiero e libertà che l’aveva molto sedotto, gli si è aperto un mondo. In più negli anni Settanta è venuto il femminismo, abbiamo fatto Maddalena Libri che era proprio dietro casa al Pantheon. Per lui è stato un grande arricchimento ma almeno una grande avventura. Io assecondavo molto il suo cinema, ma certe tematiche non dico che le imponevo, ma le proponevo con forza.
Erano estranee al suo mondo
Erano estranee e lui se n’è appropriato facendole proprie DA srtista come era. Raramente ho incontrato una persona legata al proprio di modo di lavorare come lui. Andava a trovare quei produttori dementi e diceva: sì va bene. Ma al dunque era più forte di lui, non cambiava NIENTE, non ce la faceva. Non era astuto come i nostri registi che erano più machiavellici, più furbi, più latini, pronti a trovare un compromesso, in senso buono, però facevano anche grandi film. Lui non era capace, faceva come aveva sempre fatto.
Per “Vizi privati, pubbliche virtù” che problemi ci furono?
Siamo stati condannati e poi assolti in appello. Il produttore era Edmondo Amati, nella sua semplicità era un signor produttore, era uno che diceva: a me basta che ci sia il sesso poi fate quello che volete. All’epoca anche Borowicz, aveva avuto un sacco di processi, era la vague degli anni Settanta, anche Tango a Parigi è figlio di quell’onda in qualche misura. Lui giocava abbastanza in casa per il fatto che era ambientato in Austria Ungheria. Contrariamente alla Pacifista non ha avuto nessun problema per le riprese, poi li ha avuti dal punto di vista giudiziario, ma non con gli attori o il produttore. Abbiamo girato in Jugoslavia.
Stavi molto sul set dei film?
Sì anche perché ero responsabile della sceneggiatura che era stata buttata via. Ogni mattina lui cambiava, io nottetempo dovevo riscrivere i dialoghi e la mattina convincere gli attori che quello che avevano imparato lo dovevano dimenticare e gli portavo la lista dei nuovi dialoghi, cosa che Laura non gradiva per niente. Stavo sul set sempre, poi seguivo la postproduzione, il doppiaggio.
E il montaggio? è il suo primo film «montato»
È interessante perché per la prima volta Miklos ha affrontato il montaggio. Lui ha girato tutto in piano sequenza, poi ha detto a Roberto Perpignani: adesso tagliamo tutti i piani sequenza e rimontiamo tutto. Roberto racconta sempre che è arrivato una mattina con il suo toscano e ha detto: ora facciamo un montaggio alla Godard e lui è rimasto di sasso, pensava di dover assemblare 30 inquadrature, invece sono stati chiusi in moviola tre o quattro mesi. Dei piani sequenza sono rimasti interi due o tre come la scena del ballo, per il resto è tutto molto tagliato e rimontato. Io ho detto a Roberto: in realtà avete fatto un lavoro inutile perché avete rifatto dei piani sequenza. C’è una continuità di racconto come lui costruiva il piano sequenza quando si andava in prova sul set: metteva giù i suoi trenta, quaranta metri di carrello e poi faceva per un giorno e mezzo le prove e al terzo giorno girava la sequenza. Loro al montaggio hanno fatto lo stesso lavoro. Questo è divertente perché ti racconta come quest’uomo fosse schiavo delle sue ossessioni. Ha usato un mezzo in più che fino a quel momento non aveva usato. La tecnica e il rito lo abbiamo montato in quattro o cinque giorni. Era molto veloce a girare, tre o quattro settimane al massimo, faceva le prove come a teatro. All’epoca usava molto lo zoom cosa che oggi non usa più nessuno. Lui metteva su un 25/250 e con il movimento del carrello lo zoom lavorava, per questo non si avverte. Non è mai fatto da fermo. Andava da un totale a un semi primo piano e non ti accorgevi che c’era lo zoom perché c’era il carrello. Questa era una magia straordinaria.
Mi ha colpito questa sua frase detta in un’intervista a Giacomo Gambetti, la spiegazione della vostra separazione: «seguivamo strade diverse, lei voleva fare la regista». Una frase che dice tutto sull’atteggiamento maschile.
La forza del nostro rapporto ha cominciato ad incrinarsi perché per tanti anni sono stato il suo prolungamento, lui viveva in Italia e io ero il suo tramite nei rapporti, ero io che telefonavo, che prendevo gli appuntamenti. Tutta l’organizzazione della vita sia affettiva che professionale era sulle mie spalle. Bisognava telefonare a Carlo Ponti e telefonavo io, si litigava con l’attore e diceva: parlaci tu. Ero io che dovevo sbrogliare tutte le matasse. Nel momento in cui ho avuto la necessità di avere uno spazio mio, il rapporto ha cominciato a diventare più complicato. Mancava la sua controfigura che faceva tutto quello che lui non sapeva o non voleva fare. Sulle cose pratiche Miklos è sempre stata una persona molto incapace, non ha mai imparato a fare un assegno, non maneggiava i soldi, sulle cose pratiche si perdeva come un bambino. Quando ho cominciato a dire: datti una mossa e ho ricominciato il lavoro di giornalista e soprattutto ho fatto Maternale. Lo ha montato Roberto Perpignani e mi ha detto che quando Miklos lo ha visto in premontato ha pianto tutto il tempo e alla fine ha detto: Giovanna è l’unico allievo che ho avuto nella vita. Dopo di che esce dalla proiezione e comincia ad attaccarmi e dire quel finale lo devi tagliare quella scena fa schifo quelle tende si muovono malissimo. Un atteggiamento schizofrenico e siamo entrati in crisi. Eravamo così legati che nessuno mollava, abbiamo impiegato anni a separarci, nessuno osava dire: o cambi o ci lasciamo. E così si procedeva per gradi, andava in Ungheria invece che per una settimana per un mese un mese e mezzo e poi tornava. Sono passati anni prima che lui trovasse la sua strada e io la mia. Da un punto di vista ufficiale era sempre molto protettivo nei miei confronti, cosa che rifiutavo, da una parte era paternalista e poi aveva attacchi furibondi nei miei confronti e nei confronti dell’Italia. In ogni caso devo molto a Miklos. Oggi che faccio documentari più che film, la mia costruzione visiva è molto di radice janciana.