Passare in questi giorni per al Balou vuol dire fare un salto all’indietro di 15 anni, alla seconda Intifada, l’Intifada di al Aqsa. A pochi metri dall’enorme bandiera palestinese che sventola sul monumento che da qualche tempo domina la zona, si scorgono pneumatici dati alle fiamme, pietre, detriti, resti di barricate. E nell’aria l’odore pungente di gomma bruciata. Proprio come quei mesi tra l’autunno e l’inverno del 2000-1 quando questa zona periferica di al Bireh (Ramallah), a due passi dalla colonia israeliana di Bet El e dall’omonimo quartier generale dell’Esercito in Cisgiordania, si trasformò in uno dei principali campi di battaglia tra giovani palestinesi e soldati israeliani. Non è chiaro se quella in corso dall’inizio del mese sia una nuova Intifada, l’Intifada di Gerusalemme, ma a Balou scorre di nuovo il sangue. Due giorni fa Ahmed Sharaka, un ragazzino di 13 anni è stato ucciso dai colpi sparati da soldati israeliani per disperdere una manifestazione. Forse gli stessi militari che la scorsa settimana, aiutati da agenti infiltrati, hanno catturato e pestato alcuni dimostranti.

 

Ahmed è stato sepolto tra inni al martirio e la disperazione della famiglia. «Lo hanno centrato in pieno petto, era apparso subito molto grave, i medici non hanno potuto fare molto per salvarlo», ci racconta Sari, giornalista palestinese con cui condividemmo non pochi di quei giorni di rivolta del 2000 e degli anni successivi. «Non mi sorprende che i giovani tornino a sfidare qui le forze armate israeliane», aggiunge Sari «Bet El è il simbolo dell’occupazione della Cisgiordania, è una delle colonie israeliane più militanti». Pare che gli estremisti di destra responsabili dell’assassinio di Ali Dawabsha, il piccolo di 18 mesi morto (e i genitori poco dopo di lui) nel rogo doloso della sua abitazione a fine luglio, intendessero vendicare, punendo palestinesi innocenti, la demolizione ordinata dalla Corte Suprema di due edifici di Bet El illegali anche per la legge israeliana. Gli autori di quel brutale omicidio, condannato anche dal premier israeliano Netanyahu, sono ancora liberi e tra i palestinesi nessuno crede che saranno mail portati davanti ad una corte.

 

Come 15 anni fa, i giovani palestinesi sfidano con lanci di sassi e bottiglie molotov i soldati schierati a difesa di Bet El. Molti sono dei ragazzini, non erano neanche nati quando cominciò la seconda Intifada e ora vogliono esserci a tutti i costi, anche sfidando la morte, come Ahmad Sharaka. Intorno a noi curiosamente regna la calma ma la tensione è destinata a sfociare presto in nuovi scontri. Pochi girano da queste parti. Scorgiamo un paio di ragazzi, fermi alle spalle della vicina stazione di rifornimento. Accettano con riluttanza di rispondere a qualche domanda. «Per noi questa è Intifada e vogliamo che vada avanti fino alla vittoria» ci dice uno dei due rifiutandosi di dare il nome – «non ne possiamo più (di Israele) e anche se il presidente Abu Mazen chiede di fermare l’Intifada noi non lo faremo, continueremo a lottare». Il suo amico non ha voglia di parlare, però annuisce.

 

I giovani, gli adolescenti palestinesi si stanno rivelando una spina nel fianco di Abu Mazen. Alcuni, quelli più grandi e informati, si dichiarano addirittura rispettosi del neonato Comando unificato dell’Intifada – simile al coordinamento di gruppi e fazioni palestinesi dell’Olp che guidò la prima Intifada nel 1987 – che ha proclamato l’unità palestinese nella lotta all’occupazione e in nome della terza Intifada. L’entourage di Abu Mazen nega la nascita di questo comando unificato. Ammetterla significherebbe affermare l’esistenza in una sorta di leadership alternativa all’Anp. E la presidenza non può permetterselo mentre una parte significativa di palestinesi, i giovani in particolare, si dichiarano stanchi della direzione politica di questi ultimi anni. Eppure lo stesso Abu Mazen sa che non è più possibile andare avanti mentre la terra dello Stato di Palestina riconosciuto dall’Onu viene risucchiata ogni giorno dalle colonie israeliane. «Questa eruzione limitata era inevitabile. Non ha niente a che fare con il recente discorso del presidente Abu Mazen alle Nazioni Unite (i palestinesi non si sentono più legati agli accordi con Israele, ndr) ma pur senza scandire slogan ed evitando di accrescere le aspettative (della popolazione), la situazione cambierebbe?» si domandava ieri Talal Akwal sul quotidiano al Ayyam di Ramallah. «Il governo israeliano – ha aggiunto – non prende nemmeno in considerazione la possibilità di mostrare un sufficiente grado di flessibilità. Il ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon ha dichiarato che sotto Mahmoud Abbas (Abu Mazen) l’Anp non è un partner nel processo di pace, il primo ministro Netanyahu minaccia di rioccupare la Cisgiordania e un certo numero di ministri sono membri del movimento dei coloni e chiedono una escalation contro l’Anp».

 

Akwal sembra rivolgersi proprio ad Abu Mazen, per scuoterlo. Lo invita a tenere presente che a contestarlo non sono solo i giovani. Anche in Fatah, il suo partito e spina dorsale dell’Anp, il fermento è forte. Mentre il presidente lancia appelli alla calma, alcuni importanti dirigenti del partito spingono per tenere accese le polveri dell’Intifada. Tre di essi sono direttamente coinvolti nella rivolta. Tawfik Tirawi, Sakher Bseiso e Sultan Abu al-Ainain sono convinti che questa nuova Intifada sia la strada giusta anche per rinnovare e rilanciare il prestigio di Fatah. Abu Mazen resiste alle pressioni dell’ala più radicale, conferma il divieto per i dirigenti di Fatah di partecipare all’Intifada di Gerusalemme. Tuttavia il presidente sa che non può tirare troppo la corda. Fermare con la forza le proteste anti-israeliane, su pressione di Israele, Usa e Europa, potrebbe indirizzare la rivolta contro la stessa Autorità nazionale palestinese