Il senso comune ha decretato che i robot si differenziano dagli umani perché non possono avere sentimenti. È stato questo uno dei leit motiv di tanta saggistica o narrativa di fantascienza. Cosa accade se un robot dalle sembianze umane ha la capacità di apprendere fino al punto di manifestare sentimenti? È la domanda che muove il protagonista del romanzo Il giovane robot di Sakumoto Yosuke (edizioni e/o, pp. 213, euro 16, traduzione di Costantino Pes).

L’autore è giovane come il suo protagonista e il romanzo ha avuto successo di pubblico e di critica. Yosuke ha un passato e un presente scandito da un disturbo bipolare narrato nel suo blog (come il suo protagonista), ama il ping-pong, è inseparabile dallo smartphone, è un sofisticato divoratore di manga ed è appassionato lettore di articoli e saggi sull’intelligenza artificiale. E di machine learning, sistemi esperti, algoritmi il libro è pieno, riuscendo a sfuggire così a una rappresentazione antiscientifica dell’intelligenza artificiale, arrivando a informare che anche le macchine digitali possono manifestare sentimenti.

IL ROMANZO RUOTA attorno alla vita di un giovane robot che è stato costruito per indagare il ruolo dei sentimenti nella vita umana. Frequenta una scuola, fa esperienza del bullismo, è amato da una donna; comincia a decifrare idee, sensazioni che gli umani rubricano sotto la voce: «sentimenti». Ha però il divieto assoluto di corrispondere a relazioni di vicinanza con questi ultimi. Può solo essere empatico, aiutarli nella risoluzione di piccoli o grandi problemi. Emerge un affresco del Giappone dissonante rispetto la rappresentazione mediatica di città ipertecnologiche dove è preclusa ogni intimità e vicinanza nei rapporti umani al punto da rendere quella società esempio «vivente» di una alienazione di massa. L’ambientazione del romanzo restituisce invece ragazzi socievoli, empatici, poco competitivi.

Così come conviviali sono anche gli adulti. Ma è una rappresentazione è parziale. E svela il suo carattere posticcio quando il protagonista espone a una ragazza, che lo ama con discrezione, un inquietante pensiero: la scissione schizofrenica che vive tra l’essere macchina e l’esperire pensieri umani, fin troppo umani. La storia ha una impennata, facendo prima trasparire l’inquietante riflessione sulla intelligenza artificiale come proiezione schizofrenica dei progettisti di «macchine intelligenti», per poi virare sulla più realistica considerazione che solo uno schizofrenico può percepire se stesso come una macchina.

IRROMPE COSÌ nelle pagine del romanzo il rimosso di un giovane uomo picchiato ferocemente dal padre e poi abbandonato. È un diffuso disturbo bipolare della società giapponese, suggerisce infine lo scrittore, che rende i giovani dei robot incapaci di manifestare e vivere sentimenti. Ed è responsabilità degli adulti non averli «programmati» ad apprendere il mestiere di vivere. Sarà il ping-pong lo strumento per diventare adulti, per tessere la tela delle relazioni umane. E poter così gettare in cantina i robot, poveri simulacri di quell’affascinante rovello che è la natura umana.