Non c’è dubbio che Figli del Bronx, la società di produzione fondata nel 2003 da Gaetano Di Vaio, ha aperto un solco nel panorama del cinema italiano, dando un impulso creativo e un segnale di vitalità nell’ambito della produzione indipendente a low budget, dimostrando che si può perseguire una linea produttiva autoriale che diventa un brand tematico e stilistico, riportando l’attenzione della critica e del pubblico sul “cinema del reale”, sull’importanza del documentario. Oltre tutto Di Vaio, anche scrittore esordiente con la sua autobiografia Non mi avrete mai scritta con Guido Lombardi, regista e all’occorrenza attore, con la piccola factory che ha messo in piedi a Napoli opera in un territorio dove si sono fatti sentire gli effetti positivi e negativi del ciclone ‘Gomorra’ e nell’overdose di film e libri che citano, imitano, omaggiano Saviano ha avuto il suo da fare per comunicare la diversità di un cinema e di un prodotto audiovisivo in genere che alla visione disperata e tragicamente protomarxista dello scrittore risponde con una più articolata e umanistica, alla radiografia/descrizione di ciò che è replica con la ridefinizione del confine tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Insomma nel cinema di Di Vaio c’è un barlume di speranza e di necessario ottimismo come conferma il suo terzo documentario (dopo Il loro Natale e Interdizione perpetua) Largo Baracche, che sarà presentato il 24 ottobre in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione ‘Prospettive Italia’. Con questo documentario prodotto da Figli del Bronx con Minerva Film, Eskimo, Rai Cinema in collaborazione con Associazione Socialmente Pericolosi, l’autore sembra voler fare creativamente i conti con il suo passato mettendosi definitivamente a nudo per rendere più efficace il nesso tra il suo percorso di ‘redenzione’ e l’attuale impegno sociopolitico per salvare giovani a rischio o recuperare quelli quasi ‘perduti’ anche con il cinema. E lo fa riproponendo un significativo frammento di repertorio quando giovanissimo con capelli scuri e ciuffo esprimeva la sua opinione in un gruppo di tossici, dichiarando apertamente le sue idee di sinistra mentre discute oggi di politica con un giovane di destra, riprendendosi mentre girano, incontrano giovani sbandati e fanno interviste, scoprendo il set non per svelare con intenti meta il trucco, la finzione del cinema ma per sottolineare che è tutto reale, la continuità tra arte e vita.

Largo Baracche è un cuore pulsante dei Quartieri Spagnoli. Nei labirinti di questi antichi vicoli, la macchina da presa segue le vite di sette ragazzi mostrando esistenze differenti, ognuna alle prese con il proprio passato, con i loro sogni e le loro avversità. Quelle di Carmine, Gianni, Mariano, Giuseppe, Luca, Gennaro ed Antonio sono vite dissestate, destinate ad incontrarsi per costruire un’alternativa. Si uniscono per affrontare insieme difficoltà, disillusioni, pregiudizi e contrastare quella malavita che distrugge ed opprime la città ed il Paese intero. Attraverso la loro voglia di riscatto, Di Vaio rivendica un futuro diverso da quello che sembra già cucito addosso a chi nasce nei Quartieri Spagnoli. Giovani esistenze sulle quali fin dalla nascita sembra incombere una minaccia, una condanna, il peso di un destino già scritto e invece un’altra vita è possibile. Nel prefinale due dei protagonisti Carmine e Gianni in costume sugli scogli parlano in un efficace napoletano stretto di ragazze, di primi amori con quel comunicativo realismo di un certo cinema francese giovanile, di Dumont, dei Dardenne.

Al Festival di Roma Figli del Bronx è presente anche come produzione (con Cattleya) del cortometraggio di Toni D’Angelo Ore 12 (in programma sempre il 24). E’ uno dei cinque cortometraggi nati nell’ambito del laboratorio di arti audiovisive “MINA” tenuto a Scampia. Dopo due lungometraggi di fiction Una notte e L’innocenza di Clara e il documentario Poeti, D’Angelo ha girato uno short che si stacca nettamente dalla mediocrità media dei cortometraggi italiani. Ancora un ghetto periferico di Napoli, un territorio degradato ad alto tasso camorristico, ancora giovani che vivono tra violenza, disagio, emarginazione, ma D’Angelo piuttosto che assecondare la tendenza a piangersi addosso ha voluto raccontare semplicemente l’amore, un sentimento eterno e universale che difficilmente viene raccontato in quei posti abbandonati alla criminalità e nel suo film succede che anche ragazzi appartenenti a clan rivali e in guerra si amino a tal punto che sono disposti a sacrificare qualunque cosa pur di stare insieme. E così Sara e Davide diventano nuovi Romeo e Giulietta in un contesto ben diverso da quello degli amanti veronesi ma altrettanto ostile. Il tenero amore dei due adolescenti cresciuti insieme e diventati inseparabili, subito osteggiato dovrà fare presto i conti con la perdita dell’innocenza. E questo avviene nel momento in cui assistono, davanti ai loro occhi, alla visione dei loro due padri che si affrontano e si uccidono a vicenda. Inizia la faida tra le rispettive famiglie fino all’escalation finale quando i due innamorati decidono di reagire, pronti a tutto anche a sacrificare le loro esistenze pur di potersi riabbracciare. Alle ore 12.00 durante uno scontro violento nel quale non si contano i morti da entrambe le fazioni, Davide e Sara rimangono vivi e in quell’arena di cemento si ritrovano uno di fronte all’altro, come in un film western, con le pistole puntate e pronte a sparare. D’Angelo immerge tutto questo nelle atmosfere, nello stile e nella tensione proprie del melò action di Hong Kong e John Woo con un omaggio esplicito ma c’è anche un po’ di spaghetti western e di Tarantino. Gran ritmo, belle inquadrature, sequenze incisive, montaggio serrato, dialoghi essenziali e tante invenzioni visive per comunicare con leggerezza amore e odio, violenza e disagio.