L’arrivo in sala di questo film, anche se (e purtroppo) per soli due giorni, oggi e domani, è più che un evento. Non perdetelo. La tomba delle lucciole infatti (la cui edizione italiana è stata curata da Gualtiero Cannarsi, con un piccolo cambiamento del titolo che sarebbe Una tomba per le lucciole) è uno dei capolavori dell’animazione giapponese nata dallo Studio Ghibli, e della storia del cinema mondiale. Realizzato nel 1988 da Isao Takahata, pochi anni dopo avere fondato lo Studio insieme a Miyazaki, La tomba delle lucciole, magnifica metafora sull’apocalisse della seconda guerra mondiale, viene considerata il Germania anno zero del Sol Levante. E non solo perché i protagonisti sono due bambini rimasti soli nella devastazione della guerra a cui cercano in ogni modo di sopravvivere.

Nella parabola dei due fratellini, Seita e Setsuko, si delinea con precisione la fisionomia del Giappone nel momento della guerra ma soprattutto nei tempi a venire, quando la Storia viene messa da parte, accantonata con la vergogna della sconfitta. I due bimbi perdono la madre nei bombardamenti americani che distruggono la città di Kobe. Del padre, ammiraglio della marina dell’imperatore Hirohito non hanno notizie da tempo, la loro casa è bruciata insieme alle altre e così il maggiore, quasi adolescente, si rifugia insieme alla sorellina in una caverna nel bosco. Lì per la bimba cerca di ricostruire una specie di calore domestico, qualcosa che la tranquillizzi che al tempo stesso conforti anche lui.

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Tratto dal romanzo di Nosaka Akiyuki, il film di Takahata è costruito come un lungo flashback, un ritorno al passato dal presente della Storia di uno dei protagonisti, il ragazzino Seite che guardando un punto lontano ci dice: «La sera del 21 settembre 1945 io morii». Il suo corpo appare dal ricordo, stanco, emaciato, divorato dalla fame. La piccola Setsuko è già lontana e loro si erano promessi di non separarsi mai, era importante crederci per darsi forza in quelle notti lunghe, infinite di solitudine, per mettere da parte il dolore dei ricordi e quel presente di crudeltà e indifferenza. Nessuno sembrava mai essere dalla loro parte, la solidarietà era svanita anch’essa inghiottita dal cratere del fungo atomico.

E insieme sono rimasti, eccoli a decenni di distanza da quei fatti ancora piccoli che osservano da lontano la loro città ormai ricostruita. Cosa pensano, che impressione gli farà quella cartolina di ordine, benessere, apparente serenità diffusa?

Non è però un film triste La tomba delle lucciole, si piange si, e al tempo stesso si viene rapiti da questo racconto e dalla sua tenera, implacabile dolcezza. La fiaba di Takahata nel segno dello Studio Ghibli – il film uscì in sala insieme a Il mio vicino Totoro ma con molto meno successo – è un manifesto contro la guerra e contro la sua violenza che cancella qualsiasi segno di umanità. Ma nella vitalità meravigliosa dei suoi protagonisti, e nella bellezza del disegno, prendono vita sentimenti universali, la paura dell’abbandono, il dolore della perdita.

Nel paesaggio di acquerelli e di trasparenti, la realtà si mescola caustica, prepotente alla cifra fantastica. Mentre noi, insieme al regista, siamo sempre con loro, con Seita e Setsuko. Ne sentiamo il respiro, le lacrime, i sorrisi perché in fondo sono ragazzini e una bambina si diverte a guardare le stelle, a scoprire gli animali che la salutano, a correre dietro alle lucciole. L’infanzia a volte prova a difendersi dal resto, a conservare un diritto a sognare, a allontanare l’angoscia. Con loro condividiamo lo stupore e le ferite di un presente feroce, proviamo la fame, il freddo. Sentiamo la guerra, che non è solo un’illustrazione sul libro di Storia, o se pensiamo all’oggi un’immagine su youtube o un servizio di qualche tg. Siamo in Giappone nel 1945 potremmo essere in Siria adesso.

Non c’è nulla di ideologico in questo film, è la ragione del suo essere universale, la critica al suo Paese, pure presente, il regista la sposta in una visione del mondo e della Storia più ampi. Ma senza mai generalizzare, rimanendo sempre accanto ai due bambini, nella loro voce, nella loro piccola grandissima sfida.