Al centro del Polittico Stefaneschi, dipinto per l’altare maggiore della vecchia basilica di San Pietro, si vede il committente, inginocchiato ai piedi del trono, porgere a San Pietro il modellino del Polittico stesso. Il prelato lo regge con la dovuta devozione, tenendo le mani velate. Se lo si osserva da vicino, si nota che anche nella versione in scala così ridotta la scena si ripete, e il «micro polittico» in mano allo Stefaneschi è reso come una semplice sagoma d’oro. È un dettaglio troppo goloso perché una sensibilità moderna non venga quasi provocata ad affascinanti, e forse anche arbitrarie, congetture. La più immediata è che ci troviamo di fronte a un artista dall’autocoscienza ben consolidata. Un artista che oltretutto ci rende un prezioso servizio documentario, mostrando il Polittico com’era nell’allestimento originario, impalcato da una struttura lignea dorata, pienamente gotica, con tutti quel fiorire di pinnacoli e di gattoni. Il Polittico, che è dipinto su tutt’e due le facce, originariamente stava sull’altare maggiore della vecchia Basilica. Il lato rivolto verso i fedeli era proprio quello con il pannello di San Pietro e il Cardinale donatore: quindi quel gioco di quadro nel quadro, suggestivamente, suonerebbe come un’orgogliosa e pubblica rivendicazione del valore straordinario di quel manufatto.
Il prestito del Polittico Stefaneschi è il colpo grosso della mostra milanese dedicata a Giotto: un’opera che non era mai uscita prima d’ora dal territorio vaticano e che per quella sua solennità d’impianto mette ancora una certa soggezione all’osservatore. Il Polittico non è firmato e in certi passaggi è certamente stato affidato ad aiuti, come spiega la stessa Serena Romano, curatrice della mostra insieme a Pietro Petraroia, nel saggio-scheda in catalogo (Giotto, l’Italia, Milano Palazzo Reale, sino al 10 gennaio, catalogo Electa: ma perché in copertina un dettaglio dalla Scrovegni? Suona un po’ come delegittimazione delle opere esposte…). Si potrebbe pensare che qualcosa non torni se un’opera rivendicata con tanta sicurezza, poi è stata affidata ad aiuti per portarla a termine. Forse proprio questo qui pro quo offre una chiave per entrare non solo nel modus operandi di Giotto – una vera impresa («multipla organizzazione del lavoro», la definisce Andrea De Marchi in catalogo), come è stato ormai assodato da un’infinità di studi, a partire da quelli di Giovanni Previtali –, ma anche nei suoi processi creativi. Semplificando, si può dire che i fattori decisivi siano la chiarezza della visione spaziale e quella «concezione positiva del contemporaneo», di cui scrive Luciano Bellosi nella sua Pecora di Giotto (da poco ripubblicata da Abscondita). Da quell’inizio si genera un processo che può anche avere cedimenti di qualità ma che resta saldamente incastonato dentro i nuovi parametri visivi e concettuali del maestro.
La mostra milanese, limitandosi a radunare (operazione per altro di per sé straordinaria) quattordici opere riferibili a Giotto rischiava di trasformarsi in un’operazione feticistica, isolando Giotto stesso da quel tessuto di relazioni e di rapporti in cui, pur dall’alto della sua grandezza, si trovò ad agire. L’allestimento di Mario Bellini, con la dominante nera e quei grandi piedistalli su cui sono appoggiate le opere, accentua questa sensazione di assolutizzazione del capolavoro. In realtà è Giotto stesso l’antidoto a questa possibile idealizzazione, proprio per quanto detto rispetto allo Stefaneschi: nelle sue opere si percepisce il convergere di una molteplicità di mani, e di un pulviscolo di voci e di sentimenti diversi. Giotto è un sorta di grande collettore, in cui un’identità variegata s’insedia dentro un assetto chiaro, nuovo e omogeneo.
Del resto il sospetto che quattordici opere siano poche, e che ci si trovi di fronte a una sequenza rarefatta e volutamente apodittica, è smentita da una sensazione contraria che si prova appena si entra in mostra: quella di spazi pieni, di una pregnanza e di una densità, a tratti quasi strabordante, di ori, di figure presenti e non più semplicemente sagomate, di dimensioni palpabili. L’ipotesi di lavoro di Giotto come regista di tante convergenze regge alla prova dei fatti. Compresa quella convergenza che dà origine al titolo alla mostra: «Giotto, l’Italia». La mostra più ambiziosa a lui dedicata è stata infatti organizzata da una città che non fu centrale nella sua pur vasta geografia. Giotto arrivò a Milano nel 1335, ormai anziano, inviato da Firenze anche in funzione diplomatica nei confronti di Azzone Visconti, leader di una potenza in ascesa nello scacchiere della penisola. Secondo ipotesi molto credibile (ne scrive in catalogo Marco Rossi), avrebbe dipinto in quella che allora era la Corte Vecchia e oggi è proprio Palazzo Reale, sede della mostra, una serie di uomini illustri nella cui schiera venne inserito lo stesso Azzone. Non resta niente di quell’impresa, anche se è evidente la ricaduta di quel suo passaggio nella storia della pittura trecentesca lombarda. Come spiega Serena Romano, Giotto fa l’Italia, unificando il linguaggio visivo («persona creatrice di una lingua nuova», lo aveva definito Roberto Longhi), innestandolo però sul corpo di culture territoriali che avrebbero mantenuto le loro peculiarità.
La mostra milanese ha il pregio di accompagnare il visitatore coprendo sostanzialmente tutto l’arco della vita creativa di Giotto a partire dalla Madonna di San Giorgio alla Costa, che Andrea De Marchi, autore del saggio-scheda, data alla fine degli anni ottanta del Duecento. Il momento padovano è rappresentato dal sorprendente Dio Padre in trono su tavola, che faceva da sportello a un piccolo vano, di cui non è nota esattamente la funzione, in cima all’arcone della Cappella Scrovegni. Giotto occupa lo spazio pittorico con uno sfondamento prospettico di grande energia («Scoperse qualcosa dello sfuggire e scortare le figure», aveva scritto Vasari). Ma è la gestualità di Dio a scongelare per sempre questo soggetto ieratico per antonomasia: lo vediamo muovere la mano come a invitare a prendere iniziativa. Infatti, affrescato appena più in basso sull’arcone, c’è l’arcangelo Gabriele che viene quindi sollecitato da Dio a muoversi per portare l’Annuncio a Maria.
Nel Polittico di Badia, che qui è accompagnato da alcuni frammenti di affreschi dell’abside, si percepisce quale sia la lucida strategia con cui Giotto approccia queste complesse macchine dipinte. Infatti le concepisce come spazi legati tra loro, in una sorta di unità di luogo che viene scandita ritmicamente dal susseguirsi degli scomparti. Giotto tiene le redini di queste composizioni con grande sicurezza, dimostrando di saper far convivere «la potente cubatura dei volumi» con la «brulicante tessitura decorativa» (De Marchi). Insomma, se la committenza chiedeva «gotico» lui si adattava agilmente, senza per altro arretrare minimamente rispetto alla nuova visione spaziale.
La sezione clou della mostra è una sorta di apoteosi di queste «macchine» dipinte, con la sfilata dei polittici di Santa Reparata, Stefaneschi, Baroncelli, sino a quello tardo di Bologna. Sono composizioni sempre dense, compatte, che bucano in modo spettacolare il nero totale dell’allestimento. Composizioni in cui le mani degli aiuti vengono come guidate dentro un ordine ben stabilito.
L’effetto avvolgente determinato da questi ritmi compositivi sempre magistrali e, dal punto di vista «retinico», dalla fisicità degli ori, non annulla affatto il richiamo dei dettagli. Perché è spesso nei dettagli che Giotto fa irrompere la dimensione della storia in fieri, della contemporaneità in azione dentro quella pittura, che in superficie ha un’apparenza ancora «antica». Nel secondo pannello da sinistra del Polittico Baroncelli, nella sfilata ordinata delle anime (ma sarebbe più corretto parlare di corpi) assegnate al Paradiso, tutte immerse nella beatitudine, se ne distingue una che improvvidamente si gira dall’altra parte. Un’anima distratta, che, anziché contemplare il centro della scena con l’Incoronazione di Maria, si perde via in chissà quali altri pensieri affaccendata. È un dispositivo elementare attraverso cui Giotto scardina l’idea di una pittura chiamata a immaginare un ordine fuori dalla Storia. Quel beato con il cappello rosso, che guarda dove non dovrebbe, invece riporta tutto a un «qui e ora». Nel Polittico Stefaneschi, il pannello con il Martirio di San Paolo è stato arricchito da un dettaglio raro: il santo assunto in cielo restituisce il fazzoletto con cui una tale Plausilla gli avrebbe pietosamente fasciato gli occhi al momento del martirio. Il piccolo drappo che vola lentamente nell’oro, gonfiandosi come un aquilone, è un altro straordinario nesso che lega i due mondi. O meglio che porta anche il Paradiso nell’orizzonte della Storia.